Spazio Italia - Radio Timisoara

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15/03/2015

Veniti la mine?

Poche ore fa, un anniversario, passato quasi totalmente in sordina. Un messaggio di una cara amica con un paio di fotografie ed una laconica frase. Poi una brevissima conversazione per ricordare che, forse, sarebbe stato bello, corretto, in linea con le altre parole, quelle dette, scrivere un pensiero, questo.
Per il resto solo una latente, profonda, difficilmente comprensibile, direi, sensazione di vuoto.
Ho conosciuto un uomo non più di cinque anni or sono. Mani grandi, dita “martellate”, callose. Un naso impossibile da non collegare a del vino o a qualunque altro tipo di distillato. Un addome leggermente accentuato, quasi tipico di un’età di poco “avanzata” e di una, quasi, generale caratteristica locale. Capelli radi, barba sempre a filo. Non molto alto, ma solido, espressione di anni di lavoro manuale. Una voce dirompente, profonda, con un timbro quasi baritonale, capace di sovrastare qualsiasi altro suono. Nell’abbigliamento un contrasto quasi stridente, tra la ricercatezza e bellezza delle sue calzature, tutte eseguite a mano e le magliette, quasi tutte a righe, quasi come se volesse dimostrare e far sapere di avere origini marinare.
Tutto farcito da una vita difficile, forse non sempre coerente, come nessuna delle vite lo può essere, ma densa di emozioni e di significato, tangibile significato.
Poche ore fa, negli ultimi quattro anni, arrivava puntuale un invito, rivolto a noi, famiglia di nuovi amici ed estimatori.
Veniti la mine?
Non vado mai, o quasi mai con piacere a questo tipo di avvenimenti, mi annoio. Sento che devo per forza augurare qualcosa che non sento, solo perché non mi interessa, come so che non interessa agli altri augurarlo a me. Per questo non festeggio i miei compleanni, per evitare alla gente azioni ipocrite. Ma a quell’appello rispondevo con calore ed entusiasmo.
Quest’anno, quella voce che, nel corso degli ultimi tempi era stata vilmente aggredita da un mostro, non mi ha più chiamato e, constato, non mi chiamerà più.
Ho atteso, qualche ora, dico io, perché non volevo fosse un altro epitaffio.
Ho atteso perché, il messaggio prima e la telefonata dopo, mi hanno colpito allo stomaco, portandomi di peso verso un pensiero che, cercando di emulare l’artista dalle scarpe artigianali con le quali percorreva le sale del Louvre, avevo plasmato per adagiare, su di un piedistallo di piccole, ma solide emozioni, un pensiero creato al fine di credere quello che, un essere, è sempre portato a credere.
La morte. Non c’è, non esiste.
Tutti, noi, io sentiamo la loro presenza e non importa che sia, alla fine il mero ricordo di eventi ancorati a momenti trascorsi del passato.
Flash di istantanee assolutamente private, intime, preziose.
“Da, venim Stefan”, portiamo con noi un paio di bottiglie di Gurra e di provolone piccante e ci raccontiamo di noi, mi racconti, ancora , di te, ci fai vedere i tuoi disegni, mi spieghi come saranno i piedi del tuo serpente di legno, sessantaquattro mi dicevi, una forma diversa per ciascun piede, anche se i serpenti non hanno piedi, ma che artista saresti sennò, un corpo contorto, difficile, come lo sono stati i tuoi anni di vita.
Chissà dove sono quei piedi d’ottone che ti è stato concesso creare, l’opera finita, completata, meravigliosa è qui con me.
Gianluca

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