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03/04/2017

Retezat 42

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20160815_113052Non se fosse il sole, il cielo terso o l’aria pungente a rendere tutto così speciale. Era tutto diverso da dove venivo, non era un altro tempo era un altro luogo, ma aveva le sembianze di qualcosa del passato, un passato che non avevo propriamente vissuto. Le cose, la vita stessa, sembrava più vera, più genuina. La gente si radunava per discutere. Il postino portava la corrispondenza tra le persone, non solo fatture o deplians pubblicitari. Quanto sarebbe durato?
La gente era povera. Viveva in case essenziali, riscaldate dalla stufa a legna. I bagni erano in fondo al giardino, chiusi tra quattro assi di legno. C’era la corrente elettrica, ma non l’acqua corrente ed ogni casa aveva una corte, un appezzamento di terreno e la stalla con gli animali. A Bozna ed in tutta l’area, c’erano le bufale, “bivolite”, ma non esisteva che un tipo di formaggio, “telemeà”, la mozzarella era una nobile scosciuta. Questo nei villaggi in campagna. In città c’era apparentemente tutto, acqua corrente, riscaldamento, bagni e fognature oltre che il telefono, ma sembrava tutto vecchio, usato e decadente oltre che precario e sporco. Preferivo i villaggi, almeno questi mantenevano quello che promettevano e poi la gente, la maggior parte, faceva di tutto per rendere le proprie abitazioni dignitose e pulite. Il pubblico, al pari del nostro sud Italia, lasciava a desiderare. Strade, canali e tutto quello che non era direttamente posseduto da qualcuno, era di tutti, quindi di nessuno. Il comunismo aveva, decisamente sradicato con brutalità inaudita, qualsiasi concetto di cooperazione e di unione. Paradossalmente il regime per eccellenza delle cooperative e dell’unione delle forze oltre che degli averi, aveva desertifcato qualsiasi buona intenzione di coalizzazione e collaborazione. La gente aveva patito le pene ed i terrori delle collettivazioni forzate. Uomini semplici, ma piccoli proprietari di pascoli, boschi e terreni fertili, avevano preferito darsi alla macchia piuttosto di acconsentire alla “volontaria” cessione dei propri beni alle nascenti cooperative agricole di produzione, i famosi “CAP” di cui tutta la Romania porta ancora oggi i segni, marcati da fatiscenti costruizioni agricole, per lo più stalle e depositi di cereali, disseminati per tutto il territorio nazionale.
E quel clima, perfetto, senza umidità, l’aria pulita che odorava di fresco inondava piacevolmente i polmoni di nuova linfa vitale. Questo non valeva per Zalau, appestata da un annorbante puzzo onnipresente, ma in campagna, oltre il monte Meses, sulla strada per Cluj-Napoca, c’era il paradiso.
La gente stava ad ascoltare Emil che spiegava perchè bisognava stringere bene le viti di collegamento dei cavi elettrici. La gente non capiva, fintanto chè mi venne l’idea di chiedere ad Emil di aiutarmi a costruire un piccolo dispositivo con un carico elettrico importante, quale poteva essere quello di una stufa elettrica. Collegammo, volutamente, male i cavi elettrici, senza stringerli quasi per niente e scegliendo una sezione molto ridotta rispetto quella che, secondo le leggi della fisica, avremmo dovuto utilizzare. Un esempio è più efficiente di mille parole. Quando collegammo il tutto, dopo i primi minuti durante i quali sembrava funzionare alla perfezione, i cavi elettrici utilizzati iniziarono a fumare e, immediatamente dopo, presero fuoco. Il contatore non eveva un magnetotermico di protezione, bensì una sorta di fusibile ceramico, ma, nonostante l’evidente corto circuito, non stacco’ la corrente continuando ad alimentare il piccolo incendio. Le donne si spaventarono ed iniziarono ad urlare. Ci misi un paio di minuti a calmare le acque. “Questo è quello che acade se utilizzare sezioni di cavo troppo sottili e non stingete molto bene i collegamenti”. Avevo riprodotto, senza saperlo, quello che moltissimi di loro avevano subito proprio a causa della loro povertà che gli aveva “consigliato” di acquistare prolughe non adatte al carico che avrebbero dovuto supportare. Se non ci fu mai un errore nella produzione dei miei quadri elettrici, fu quello legato ai cavi poco serrati nei loro collegamenti.
La piccola area di produzione era un gioiello. Razionale, efficiente e logica. Tutte le operazioni necessarie per produrre i quadri elettrici erano state smembrate in piccole attività di pochi secondi, tutte al di sotto dei novanta e divise tra le varie persone, formando, di fatto, una piccola catena di produzione. Alcune operazioni, perchè più lente e particolari, erano poste fuori linea ed attivate in anticipo, in modo da avere una piccola riserva per non rallentare o fermare il flusso delle attività in linea.
L’area non aveva un vero e proprio ufficio, per cui posizionai una scrivania proprio all’inizio dell’area di produzione, come se fosse una classe, dove io, che potevo essere considerato il “maestro” stavo in cattedra e supervisionavo i miei operai. Come suonava strano, “i miei operai”. Erano persone che avevano bisogno di lavorare per poter arrotondare i miseri proventi del loro lavoro nei campi o nelle stalle. Moltissima gente aveva richiesto ed ottenuto il passaporto, forse più per annichilire l’insopportabile divieto di poter abbandonare la propria nazione. Ma quasi nessuno aveva mai avuto nemmeno l’idea vera e propria di usarlo. Soprattutto quelle persone che non vivevano in zone limitrofe ai confini di Stato. Inoltre, per poter viaggiare in “Europa” avrebbero dovuto, tutti quanti, richiedere un visto e, allora, non era cosa po così semplice. Questo ovviamente, aveva visto proliferare una sorta di corruzione e malaffare, spesso alimentato da sedicenti funzionari o pseudo funzionari di Stato e di Consolati stranieri, di cui l’Italia non fu immune, che commercializzavano visti per cifre che oscillavano tra le poche centunaia di dollari a qualche migliaia, a seconda della nazione e del tipo di visto richiesto. Qualche anno più tardi avrei conosciuto uno di questi “signori” che, incredibilmente, continua ad operare ancora oggi, ma, chiaramente, a livelli ben più elevati.
Tutti, ma proprio tutti si rivolgevano a me appellandomi “domnul patron” “signor padrone” ed a secondo del contesto si usavano formule quali “patronul meu” ovvero “il mio padrone”. Io cercavo in tutti i modi di convincerli che li non c’era nessun padrone di nessuno, bensì gente disposta a lavorare, a rischiare ed a mettersi in gioco sfruttando, ognuno di loro, le proprie competenze e le proprie capacità.
Era stato molto difficile scegliere i miei primi dipendenti. Prima di tutti Laura non mi aiutava con le sue frammentate e spesso, infedeli, traduzioni. Inoltre non avevo nessuna esperienza in quel tipo di attività. Non sapevo che avrei dovuto, in seguito negli anni, assumere decine di migliaia di persone e già quella piccola schiera di persone che stavano lavorando per me, mi sembravano un numero enorme. Forse era anche il senso di responsabilità che mi rendeva particolamente sensibile. Sì responsabilità e una sorta di timore, anche se velato, relativo alle attività che avevo deciso di porre in atto. Non avevo e non potevo avere nesuna certezza che quello che stavo facendo avrebbe avuto il fine sperato e, come insegna Murphy, nulla ma prorpio nulla andrà mai nel modo in cui lo hai pianificato. Io non ero l’eccezione che confermava la regola, anzi. Certo, già in quel momento avrei potuto rendermi conto di quello contro cui stavo andando incontro, ma non ero ancora capace di scindere l’amore per la mia idea, che, tra le altre cose, si stava realizzando, e quei segnali che, seppur deboli, già stavano urlando l’incongruità di alcune azioni verso le dichiarazioni di intenti. C’erano i numeri relativi ai lavori da eseguire che non tornavano, prima di tutto. Finiti i primi quadri elettrici che, nonostante la prima impressioni di quantità smodata, si erano rivelati quelli che erano, poco meno di dieci giorni di lavoro. Non ultima la fattura di Paolo per le attrezzature che aveva mandato, il cui valore era almeno dieci volte il più caro del valore reale. Oltre a questo c’erano tutti i costi che, nei miei piani previsionali in erba, non avevo considerato bene o non avevo considerato del tutto e, benchè si trattassse molto spesso di piccole somme, la loro quantità stava crescendo a dismisura, limando in maniera importante, il mio capitale in marchi.
“Senti non ha nessun senso che io rimanga qui a Bozna con te. Tra poco ci sarà bisogno di avere un ufficio a Zalau, andare in banca, in Dogana e seguire l’attività in tutti gli uffici deputati al controllo delle attività economiche.” Laura, era più che evidente, voleva stare in città. Io volevo lo stesso, ma perchè mi ero reso conto che la sua presenza, non solo era stata fraintesa dai dipendenti che avevano creduto che lei fosse anche la mia amante, ma soprattutto per il suo carattere scostante che generava una sorta di malessere generale che spariva nel momento stesso in cui, lei, Laura, usciva dal capannone. Continuavo a chiedermi perchè mai continuassi a tenerla al mio Servizio.
Avevo superato la frontera dei trent’anni. Un uomo con delle ferite sentimentali rimarginate a forza di palliativi di tutti i colori, misure e caratteri. Non nascondo che trovare una compagna fosse una delle mie priorità, avevo altro da fare in quel momento, ma una relazione stabile, con la quale condividere alcune delle mie nuove esperienze, certo, non sarebbe stata una brutta sorpresa. Ma in quel periodo passavo molto tempo, sempre di più in Romania. Lì avevo un problema dettato dal fatto che ero italiano. Non avevo nessuna possibilità di capire se le intenzioni di una donna rumena, fossero dettate da sentimenti, veri, oppure da altri tipi di desideri quali quello di ottenere dei vantaggi economici. La differenza tra le mie possibilità economiche di allora, assolutamente normali in Italia, e quelle che un cittadino medio poteva solamente immaginare, erano abissali. Facile capire la mia diffidenza nel credere in potenziali sentimenti.

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19/08/2016

Retezat 3

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Ma tra il dire ed il fare c’e’ di mezzo il mare, in quel caso la dogana, o meglio, i doganieri di Petea.
Il cambio turno duro’ oltre un’ora ed anche i miei connazionali, visibilmente avvezzi all’indolenza dei funzionari di stato rumeni, iniziarono a spazientirsi. Ma in loro c’era una sorta di umore completamente illeggibile, per lo meno ai miei occhi di “verginello”. In realta’ il bagagliaio della loro macchina era colmo di pezzi di ricambio ed attrezzature per i quali non avevano nessuna intenzione di effettuare le pratiche per l’importazione legale. Oramai, anche se avessero voluto farla, non avrebbero potuto ed sarebbero incappati nella confisca dei beni ed in una, ben piu’ pesante, sanzione penale. Per cui, nonostante l’impazienza e la stanchezza forgiasse un’incalzante rabbia, la calma appariva la sola padrona dei loro sguardi. Come previsto il doganiere, aprendo il passaorto di uno dei due italiani, fece cadere, neanche senza molta cura, delle banconote di dollari sul tavolo al quale si era sistemato da qualche minuto, all’interno della sua garritta e, con un fare da vero professionista, ma non prima di aver preteso anche una stecca di sigarette, li lascio’ passare senza nemmeno siorare con lo sguardo il bagagliaio della Mercedes 200 targata italiana.
La mia prima dogana rumena fu diversa.
Avevo, su avvertimento dei due connazionali, apposto il visto sul mio passaporto. Era costato sessanta dollari. E l’uffico preposto ai visti era una baracca che sfidava le leggi della fisica per rimanere in piede, all’interno della quale c’era una splendida creatura. Una donna sulla trentina, con capelli rossi rame, pettinati in modo impeccabile, delle mani curatissime ed un trucco, forse un po’ pesante, ma che metteva in risalto dei lineamenti decisamente favolosi. Unica nota stonata lo sguardo. Non avevo mai visto in vita mia, uno sguardo cosi’ carico di tristezza, di rassegnazione e di angoscia messi insieme. Non disse una parola, non mosse un muscolo del viso, solo le mani e quelle spendide dita affusolate, mossero rapidamente l’aria circostante. Mi lascio’ una profinda sensazione di angoscia e di pena.
Per molto tempo ripensai a quello sguardo. Non la rividi piu’, anche se passai moltissime volte da quella dogana prima di decidere di cambiare strada ed entrare in Romania da Bors. Chissa’ che fine ha fatto quela donna e perche’ era cosi’ triste, cosi’ angosciata. Certo che quello sguardo lo rividi in moltissime altre persone, non solo donne. Era una sorta di rassegnazione che avvolgeva la vita di tantissimi rumeni, Come se, nonostante la liberta’ guadagnata, si rendessero conto, giorno dopo giorno, che, in fondo, la liberta’ senza futuro, non valeva nulla. Molti avevano frainteso il significato di democrazia. La voglia, il desiderio di liberta’ era sfociato, in molte persone, in una sorta di anarchia costituzionale. “Io faccio quello che voglio perche’ sono libero”. Allora tutto era permesso, tutto era possibile. Etica e morale appartenevano solo ai mentecatti, agli stupidi. C’era una Nazione da depredare, piena di finite ma immense risorse, dove ognuno che ne aveva la possibilita’, nel suo piccolo o grande spazio di manovra, poteva, quasi impunemente, appropriarsi di quello che voleva. Bastava non pestare i piedi ad un “animale” piu’ forte. Una sorta di legge della giungla che, dagli anni novanta ad oggi, ha permesso a pochi di diventare multi milionari in euro a tanti di crearsi un orticello da difendere, spesso, dalla magistratura e dal fisco.
Dal mio passaporto era chiaro che era l aprima volta che mettevo piede in Romania. Viaggiavo solo. La mia automobile era una Golf, nulla di che, ma era nuova fiammante, di un bordeaux molto piacevole. Pochi bagagli, nessuna scatola od attrezzatura nel bagagliaio. Solo tre mila dolloari nel portafoglio. Tutti i documenti in regole, nulla per poter giustificare una richiesta di denaro o di cose. Ma non esisteva che qualcuno oltrepassasse quel “guado” senza lasciare un obolo. Caronte non traghetta per nulla. Quel doganiere non era piu’ giovane ne’ piu’ anziano di me. Aveva uno stomaco talmente pronunciato che doveva rimanere ad un metro di distanza dal suo interlocutore per non toccarlo. La sua divisa era macchiata di sudore ed emanava un olezzo corrispondente al numero delle settimane o dei mesi trascorsi dall’ultima volta che era stata lavata. Barba incolta, mezza sigaretta in bocca e scarpe sporche oltre che consumate dal tempo e dall’incuria.
Inizio’ a tergiversare in maniera ostentativa, palpegiando il mio passaporto come se volesse farmi intendere che aveva scoperto qualcosa di molto grave che non andava bene. Quella pantomima durava, oramai da troppo tempo. Presi dalla mia macchina una scatola di mezzi toscani e, porgendogliela nella mano mi ripresi, senza tanti complimenti, il mio passaporto. Il doganiere era stato il secondo pubblico ufficile rumeno che aveva maneggiato il mio passaporto. Il primo era stato un poliziotto di frontiera, che, ad onor del vero, velocemente e senza induci, aveva apposto un paio di timbri per comprovare il mio ingresso in Romania ed un altro timbro che indicava con che automobile, indicando debitamente il numero di targa, ero entrato. Il doganiere non fece nessuna dimostrazione negativa. Semplicemente apri’ il pacchetto dei mezzi toscani, ne odoro’ il profumo e, soddisfatto del suo bottino, rientro’ nella garritta in attesa della prossima vittima.
Era tardi, tra un controllo un’attesa ed una perdita di tempo, erano gia’ passate le undici di sera. Non avevo la benche’ minima idea di dove dormire, sapevo solo che Satu mare sarebbe stata la mia destinazione per quella sera. Il buio delle strade era totale. La carreggiata aveva una vaghissima idea di essere stata asfaltata in un lontano passato. Il numero delle buche era impressionante e non esisteva nessuna linea di marcatura sull’asfalto.
Dopo un ponte, meno male che procedevo con molta cautela, iniziava un’interminabile fila di automobili. Stavano tutte in coda per riempire i serbatoti di benzina. Erano tutte Dacia 1310, una versione della Renault 11, che i francesi avevao venduto a Ciausescu molti anni prima. I rumeni, durante il comunismo, dovevano pagare in anticipo, integralmente il valore dell’automobile, per riceverla un paio di anni piu’ tardi. Era un sistema normale, comunemente accettato dai piu’, ma con le sue brave eccezioni. Esistevano le raccomandazioni, le conoscenze, gli uomini di partito e cosi’ via e chi non aveva nessun santo in paradiso, aspettava e basta. Non avevo molte informazioni di quanto fosse accaduto negli anni del comunismo rumeno, ne avrei apprese giorno per giorno sia dai racconti delle persone che avrei conosciuto, sia da quanto avrei visto con i mei occhi ad iniziare da quei pochi chilometri che avavo iniziato a percorrere all’inizio della mia grande avventura rumena.
Continua…