Retezat 9
Pochi mesi prima di partire per quella che sarebbe stata la più grande ed importante avventura della mia vita e, non esagero, di decine di migliaia di persone, al tempo come ogi, per lo più , sconosciute, avevo incontrato un ex cliente della banca dove avevo prestato servizio per quasi dieci anni.
Costui, Antonio, era un assicuratore il quale, tra le altre cose, cercava di arrotondare i suoi proventi forse non sempre legalmente, fornendo opportunità di collegamento tra i suoi clienti ed altre persone che, per lavoro o per caso, aveva avuto la possibilità di incontrare.
“Ciao GianMaria, vorrei presentarti un mio caro amico il quale avrebbe bisogno di riorganizzare la sua attività” Di solito questo significava che il suo “caro” amico era nei guai più profondi e che aveva un disperato bisogno di soldi.
Non so perché non feci notare subito che non lavoravo più all’ufficio crediti del Banco di Sicilia e che, molto difficilmente avrei potuto supportarlo. DI fatto rimasi ad ascoltarlo e rimanemmo d’accordo che saremmo andati a trovare questo suo amico, il mattino seguente.
Paolo era un laziale, trapiantato in una località limitrofa a Padova, Limena, dove aveva una piccola società che assemblava, oltre alle altre piccole atività, quadri elettrici per il controllo della temperatura di celle frigorifere, di proprietà di un grosso gruppo industriale del padovano. La sua azienda era costituita dalle due figlie che si occupavano di amministrazione, da lui stesso e da cinque tecnici che svolgevano le più disparate operazioni. Paolo era tutto tranne che un imprenditore, aveva un fare decisamente levantino per non dire peggio e, senza molta cultura a bagaglio, oltre che ad un italiano molto approssimativo, cercava di sbarcare il lunario tra una fattura ed una cambiale.
Antonio, l’assicuratore, da vecchia volpe qual’era, aveva capito che avrei potuto aiutarlo e, probabilmente, guadagnare una commissione per avermi presentato a Paolo. Quello che Antonio e, probabilmente, Paolo non sapevano ancora, era che io non ero più un dipendente del Banco di Sicilia e, che, non avevo più nessun potere se non quello di, eventualmente, presentare l’azienda di Paolo a qualche ex collega pregandolo di vedere se era possibile risolvere il suo problema che a detta di Paolo, era solo di una temporanea crisi di liquidità.
La piccola azienda era molto disorganizzata. C’erano materiali un po’ dovunque, non si riusciva a capire quale fosse il flusso delle merci e, soprattutto, cos’era in lavorazione e cosa era in attesa di qualcosa. I conti, poi, erano disastrosi oltre la mia più nera delle previsioni. Un magazzino estremamente alto, tale da sembrare decisamente gonfiato per aumentare le attività della piccola azienda, incassi ad oltre ducentocinquanta giorni e debiti correnti che avevano, praticamente, eroso il già esiguo capitale netto della società. La cura, se ce n’era una, sarebbe stata quella di valorificare , vendendo, la maggior parte dei materiali, sempre che esistessero, rinegoziare i termni di incasso con i clienti e ridurre le spese di produzione. Accedere ad un ulteriore credito, in quelle condizioni, era praticamente da escudere.
Forse nessuna delle opzioni pareva e, sarebbe stata possibile. Ma, c’era un ma.
Anche se cercassi di sforzarmi mille e mille volte non sarei in grado di confessare quale fu, in quel momento, il mio processo logico che, in pochi istanti, mi portò ad offrire il mio aiuto a quella gente. Non avevo intenzione di investire i miei guadagni in quell’azienda, ma in un’altra si.
L’dea era, probabilmente nata dalle mille letture che avevo eseguito negli anni precedenti. MI è sempre piaciuta la storia, soprattutto quella politica. Le nazioni dell’est europa avevano , da sempre , suscitato la mia curiosità, sin dai miei primi viaggi in Jugoslavia, a Porto Rose. Da quando nel 1989, il muro di Berlino era stato abbattuto. I racconti della televisione, i reportage relativi avevano un fascino particolare in generale, e per me rapprsentavano, da sempre, uno stimolo importante. Ero mosso da una curiosità innata che mi spingeva a capire, comprendere e vivere le emozioni delle persone costrette a vivere all’ombra di un regime che aveva costretto tutti ad assoggettarsi a regole, spesso, disumane. La collettivatizzazione, le nazionalizzazione forzata dei beni, spesso, fruto di decenni di lavoro e di sacrifici. Non importava essere ricchi, nobili, possidenti, bastava aver posseduto un piccolo appezzamento con il quale, con il duro lavoro di tutti i membri della famiglia, si sostentavano tutti. Spesso la famiglia si stringeva ed i più si sacrificavano per permettere ad uno dei membri, il più dotato intellettualmente, per permettere a questi di frequentare gli studi universitari. Molti di loro si erano visti negare il diritto di proseguire gli studi perché i genitori possedevano qualche ettaro di terra. Tragedie che mi era impossibile comprendere. Ero nato, come moltissimie altre persone nel mondo, in nazioni libere, almeno formarlment, con costituzioni che garantivano il rispetto dell’individuo a prescindere dal credo, colore della pelle e stato sociale. Ero stato fortunato, punto. Non c’erano meriti, solo fortuna. Avrei potuto essere messo alla luce a Bozna a quindici chiloetri da Zalau nella contea di Salaj nel centro della Transilvania, in Romania. Non avere il bagno in casa, l’acqua corrente, il telefono, internet…e pochissime prospettive di godere di un futuro diverso.
L’idea che si insinuava sempre di più nella mia mente, per produrre quei quadri elettrici, era quella di trovare un luogo adatto in uno dei Paesi dell’est liberati dal comunismo. C’era la possibilità, ne ero certo, un sicuro vantaggio economico, ma anche un supporto alle persone che, in quei momenti, nell’Est Europa, erano in attesa di una qualunque possibilità per riscattarsi da cinquanta anni di comunismo.
Moltissime aziende, negli anni novanta in Italia, ma non solo, iniziavano a sentire il peso della globalizzazione. Moltissimi piccoli artigiani che si erano inventati un’azienda per produrre dei materiali, prodotti e servizi vedevano i loro guadagni diminuire vertiginosamente.
In alcuni casi, dove i clienti erano, soprattutto, multinazionali oppure aziende molto grandi e strutturate, eliminare dalle liste dei fornitori. Era l’inizio della necessità imperativa di delocalizzare per non chiudere i battenti. Non erano scelte semplici, soprattutto per quegli imprenditori, picoli o grandi che fossero, che avevano rappresentato il futuro per moltissime famiglie, soprattutto del nord est italia. Adesso iniziavano a studiare le possibilità di investire, e delocalizzare all’estero. Ma la conoscenza delle regole, delle abitudini, dei costumi di popoli che sino a pochia nni prima erano oltre cortina di ferro, era basilare, ma molto, molto difficile da apprendere. Non esistevano figure di consulenti veramente capaci e preparati. Alcune delle grandi della consulenza mondiale, quale KPG, PWH e poche altre, avevano , ovviamente nozione delle leggi locali, che, tra l’altro, cambiavano di continuo, ma non conoscevano il territorio, la gente.
I primi che si erano mossi erano i piccoli, di solito calzaturieri e tessili che, stretti dalla morsa dei controller di aziende quali Bata, Benetton e pochi altri, avevano trovato un paradiso in Romania, ma non solo, semplicemente nascondendo ai loro clienti il luogo dove avevano iniziato a produrre. In questo modo potevano avvantaggiarsi di un gap decisamente enorme tra quello che ricevevano quale compenso per il loro lavoro e quello che effettivamente stavano spendendo. La differenza dei costi, al netto delle problamatiche logistiche e doganali, rappresentava almeno quindici mila lire per ogni ora prodotta. Una vera e propria manna. Bastava solamente non svelare, ai clienti, qual’era il posto dove stavano producendo, altrimenti avrebbero dovuto riconoscere la maggior parte del oro guadagno ai clienti, che, semplicemtente, lo avrebbero preteso minacciandoli di togliere loro il lavoro.
Continua…