Spazio Italia - Radio Timisoara

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09/11/2017

Retezat 45

Chegge di campana nascendiIL CRO era immerso nel verde della Pedemontana, a pochi passi da Pordenone e da Sacile. Papà era il primario anestesista e per un periodo ne era stato il direttore sanitario. Cinzia la sua segretaria era attiva e molto simpatica. Piccola di statura, gradevole d’aspetto e bionda. Conoscendo papà non credevo che l’avesse scelta lui, molto probabilmente era capitata li per caso ed a lui era andata bene. “Mi ricordo quando sei venuto ad annunciarmi che ti eri licenziato dalla banca. Mi era venuto un colpo. “ Non era passato tanto tempo da quell’avvenimento, poco più di un anno. Da quel momento erano cambiate talmente tante cose che per papà, abituato anch’egli a cambiamenti importanti, era difficile starmi dietro. Per lui il mondo che avevi deciso di seguire era per alcuni versi astruso, quasi incomprensibile. Non era sicuramente un libro aperto come quello che stava vivendo mio fratello in America. Lui era un chirurgo. Papà comprendeva benissimo il suo mondo, forse un po’ meno la realtà americana, i suoi ritmi le sue regole, ma almeno il lavoro era chiaro. Il mio no. Cosa mi spingeva a rischiare tutto per cercare di avviare un’attività in un paese come la Romania. Che pericoli correvo? Era sicuro il posto dove vivevo? “la giacca dell’ultima volta che sei venuto a trovarmi puzzava di qualcosa di chimico, sei sicuro che vada tutto bene? “ Non potevo mentire a mio padre ed anche se ci avessi provato se ne sarebbe accorto subito. Il suo studio era al quarto piano del Centro di Riferimento Oncologico. Tanti libri la fotografia di mamma alla scrivania ed una mia ed una di mio fratello sullo stesso piano della libreria difronte alla scrivania. Lui sempre con un camice bianco impeccabile e le chiavi sempre nella toppa della porta, ma sempre all’esterno, anche quando non era in studio. Non aveva nulla da nascondere a nessuno.
“le cose non vanno poi così bene, papà. Non c’e da preoccuparsi, credimi, sto già trovando una soluzione. “ il suo sguardo era sempre più apprensivo. “come ti posso aiutare figlio mio? “ Papà non preoccuparti va tutto bene, ce la faccio. “
Non era proprio vero. Il mio socio aveva prosciugato tutte le mie sostanze e quello che non mi aveva prosciugato lui, me lo era prosciugato da solo non capendo che dovevo fermarmi ben prima. Ma sapevo che papà, benché avesse un buon stipendio viveva solo con quello. Era vero che si sarebbe tolto il pane di bocca per aiutare i suoi figli, ma non era giusto, io potevo farcela. “Dottore il Professor Rossi la desidera in sala operatoria… Si Cinzia, digli che arrivo subito. “ Guardandomi mentre si accinge a uscire dallo studio, “tu lo sai che tutto quello che ho è tuo se ne hai bisogno, vero? “ Non era una frase di circostanza “papà se avrò bisogno veramente te lo dirò, stai tranquillo, non ho intenzione di fare cazzate. “
Non c’erano molti momenti di condivisione con papà. Ci capivamo al volo, bastava la semplice intonazione della voce e capivano, l’uno dell’altro, sempre. Ci eravamo capiti anche in momenti difficili, prima che mamma se ne andasse dilaniata da una malattia che papà riusciva a curare a migliaia di altre persone. Da qui un motivo per un dolore ancora più intenso, anche se faceva di tutto per non farlo trasparire.
Non è vero che il tempo lenisce i tormenti, ne cambia solo forma ed intensità.
Capirci così velocemente faceva sì che potevamo trascorrere tantissimo tempo senza parlarci. Ma entrambi sapevamo che c’eravamo e che ognuno di noi nutriva un affetto così profondo che la separazione non sarebbe stata possibile nemmeno con la morte.
Scesi con lui in ascensore. Lui si fermò al secondo piano dove si trovava il blocco operatorio. Non eravamo uso a manifesazioni di affetto palesi. Pochi abbracci, ancor meno baci, almeno allora. “Ciao, stai tranquillo.”
Quando ci lasciavamo, il mio pensiero cercava di immaginare la vita di papa’, le sue abitudini. Dal 1985 era rimasto solo. Mamma non c’era piu’ e lui non sembrava molto propenso a crarsi una nuova vita. Si crogiolava tra piccole storie e raporti amichevoli che lo avrebbero accompagnato per tantissimo tempo con la forza ed il sostego che le piccole passioni sanno regalarti quando spegni la luce della lampada sul comodino. Alcuni raporti veramente prodfondi che chissa’ per quale motivo non si conretizzarono mai in qualcosa di piu’ concreto. Alcune volte pensavo che papa’ non avesse voluto rischiare di calpestare qualche equilibrio con uno di noi figli. Ma anche se non credo che quell’equilibrio fosse il nostro, mio e di mio padre, mi sembra difficile che riguardasse mio fratello. Tuti e due, anche se in maniera diversa, eravamo profondamente devoti a papa’. Per noi era un faro, un’ancora ed un vero punto di riferimeto a cui rivolversi nel caso qualcosa delle nostre scelte non avesse raggiunto il traguardo sperato o, peggio, fosse naufragato in qualcosa di non desiderato. Papa’ era l’uomo che c’era sempre, in ogni momento, a cui potevi raccontare tutto e che a tutto avrebbe trovato una risposta. Papa’ non ti avrebbe mai umiliato ne tanto meno castrato alcuna delle tue idee, anzi, si sarebbe sempre prodigato nel cercare una soluzione che avrebbe visto, sempre, te come il protagonista. Aveva vissuto una vita quasi in punta di piedi. Sempre a disposizione di tutti anche se , ogni tanto, era disturbato dalla gente. Aveva bisogno di momenti di ricarica e di solutidune. Forse per questa paura di non avere sufficienti momenti per se che non si ricreo’ mai un’altra vita. Lui sapeva che aveva noi, anchese a quel tempo ne’ io ne’ mio fratello gli avessimo dato grandi prove i riuscire a crearci una situazione sentimentale stabile, papa’ era convinto che ci saremmo riusciti, prima o poi.
Fuori pioveva, non forte, ma in maniera decisamente fastidiosa. Quella notte non avevo dormito molto ed anche se non potevo dire di essere stanco, se avessi potuto mi sarei volentieri fermato a Pordenone per riposare. La mia macchia era parcheggiata nel grande parcheggio antistante l’ospedale, dovevo percorrere poche centinaia di metri, ma indugiai rimanendo sotto la tettoia dell’ingresso del CRO.
“Gianmaria!? “
Era l’anatomopatologa che tentava di invitarmi a cena da una vita. “Ciao Rachele” mi avevi detto che non eri disponibile. “si, vedi, dovevo parlare con papà e… “ Non mi lasciò termimare la frase. “Basta scuse adesso. Il prossimo fine settimana, venerdì sera, a cena a casa mio a Sacile e non accetto rifiuti di nessun genere. “
Non avevo più nessuna scusa. La mia potenziale soluzione ai problemi createmi da Paolo, prevedevano che rimanessi tutta la settimana a Padova per cui, perché no? “ok, Rachele, ci di vede venerdì sera a Sacile. “
Continua…

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