Spazio Italia - Radio Timisoara

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19/12/2016

Retezat 35

20160918_130110Dovevo organizzare alcuni lavori di ristrutturazione del capannone, iniziare ad assumere alcune persone, per lo meno raccogliere dei curriculum, anche se, già in quel momento, mi era molto chiaro che più che curriculum, avevo bisogno di una lista di nomi e di capire come evitare di assumere persone che avrebbero potuto creare problemi. Con la Tex avevo chiarito quali dovevano essere i passi da seguire, ma avevo l’impressione che qualcosa li frenasse. Di fatto, nonostante tutte le nostre discussioni sia Diana, Emil che Calin, non avevano iniziato nessuna attività. Loro aspettavano di capire se quello che stavo chiedendo era veramente quello che volevo e, l’unico modo che ritenevo funzionasse, era quello di mettere sul tavolo i primi soldi.
“Mi potete aiutare a trovare qualcuno che possa sistemare le finestre, il tetto, forare un pozzo e costruire dei bagni? Quanto credete possa costare? Voi potete effettuare le istallazioni elettriche?” Quell’ultima domanda fu quella rilevatrice. SI stava parlando di soldi, attività concrete. Non che prima avessi scherzato, anzi, ma erano stati tutti passi che, per me, uno straniero piovuto a Zalau come una sorta di meteora isolata e microscopica, non rappresentavano un vero e proprio impegno. I soldi versati in banca quale capitale sociale erano una piccola parte di quello che avrei dovuto e che avrei speso per avviare, prima e gestire, poi, quel progetto e nulla e nessuno mi poteva impedire di ritirarli tutti quanti e tornarmene a casa in Italia. Ma la richiesta e l’impegno di acquistare i loro servigi, costruire l’impianto elettrico, non era più un pur parlè era un contratto. La musica cambiò immediatamente, finalmente.
A quel contratto, il primo che firmai in Romania, seguirono gli altri. Il pozzo, i bagni, le finestre, il rifacimento del tetto e, dulcis in fundo, l’ignifugazione del solaio. Ero già in Romania da diversi giorni ed iniziavo a sentire una certa nostalgia di casa. Probabilmente il nuovo tram tram legato soprattutto ai cicli dell’acqua corrente e le mie docce. Il cibo era un altro punto delicato, anche se, in effetti, non sia mai stato uno schizzinoso, ma l’immobilità dei menù rumeni dell’epoca, stridevano in modo più che evidente con le mie memorie italiane. Se non avevo nessuna emozione nel lasciare Emil ed i suoi uomini completare le installazioni elettriche, qualcosa mi diceva che l’intervento dell’ignifugazione delle captiate del tetto, mi avrebbe creato dei problemi. L’intervento era stato richiesto espressamente dalla locale centrale dei pompieri che avrebbero dovuto rilasciare una certificazione inerente, appunto, la mesa in sicurezza dell’immobile che avrei adibito a piccola fabbrica. Durante la mia visita presso la stazione di pompieri avevo incontrato un funzionario, di cui dimenticai immediatamente il nome, il quale mi fece capire in maniera molto esplicita che avrebbe voluto interessarsi lui dell’esecuzione dei lavori di ignifugazione. Benché il tutto puzzava, palesemente, di conflitto di interessi, consigliato da Laura e dai ragazzi della Tex, sottoscrissi il contratto con la società che mi era stata indicata dal funzionario. L’attività era stata pianificata per il martedì della settimana entrante, per cui, alla mal parata, sarei potuto tornare in Italia il mercoledì.
Oltre alle motivazioni legate all’acqua ed ai menù, dovevo assolutamente definire i dettagli delle attività che Paolo, avrebbe dovuto completare in Italia. Non riuscivo a mantenere un pensiero tranquillo quando rivolgevo la mia attenzione a Paolo ed alle sue attività, ma era lui, e soltanto lui, il motivo per cui mi trovavo in Romania ed avevo iniziato a costruire quello che stavo costruendo. Ogni tanto pensavo all’immensità del progetto di cui mi ero preso la completa responsabilità, ma non riuscivo a vedere una sola ragione per cui qualcosa potesse renderlo impraticabile. Era sicuramente un’attività complessa, difficile se vogliamo, ma non impossibile e la mia determinazione era il miglior motore per quella macchina che avevo messo in moto. Ero sicuro che ce l’avrei fatta che avrei avuto successo, inoltre avevo iniziato a coinvolgere molte persone che, lentamente, iniziavano ad avere fiducia in me, non potevo per nessun motivo, tradire le loro aspettative.
“E quello sarebbe un trattamento ignifugo?” Un personaggio che aveva sulle spalle una sorte di dispenser che si usa per spargere il verderame sulle viti, stava spruzzando un liquido biancastro su tutte le travi , architravi e tavole del tetto. Era palesemente una truffa. Quel liquido biancastro non avrebbe impedito alle fiamme di un ipotetico incendio, di propagarsi in qualche secondo, tra i legnami stagionati del tetto, altro che ritardarne l’espandersi per ore. La solfa che mi era stata propinata dagli ufficiali della camera di commercio quando mi spiegavano quali tipo di accordi avrei dovuto raccogliere per poter dichiarare aperta l’attività che volevo svolgere, verteva sulla mia responsabilità, in quanto amministratore e proprietario dell’azienda, di preservare e cautelare la vita e la sicurezza dei miei futuri dipendenti. Non ricordo quanto mi fu richiesto a titolo di compenso per quell’operazione, ma ad ogni modo, dato il lavoro che si stava svolgendo, anche un solo centesimo sarebbe stato troppo caro. Fu così che il capo di quell’equipe di malfattori, sponsorizzati dalla locale centrale dei pompieri, formata da due persone, mi si avvicinò con fare circostanziato e mi fece capire che quel trattamento non solo era necessario ma che era eseguito a regola d’arte. Poi rivolgendosi a Laura le face tradurre “Appena avremo terminato, riceverete l’approvazione ad iniziare le vostre attività” In poche parole, se stai buono e ci lasci finire, otterrai l’ultimo benestare di cui hai bisogno per lavorare, altrimenti non lo riceverai. Il discorso sul senso di responsabilità era stato molto toccante per me, ma vedendo come si stava operando, era chiaro che, di responsabilità, in quel posto, non ce ne era per nulla. C’era solamente un obbligo di legge che aveva creato una fonte di guadagno illecito per delle persone che, con gli agganci giusti, avrebbero potuto proseguire con i loro illeciti, fino a quando, qualche tragedia, li avrebbe messi, probabilmente, in prigione e di fronte alla loro coscienza. Cosa, quest’ultima, di cui dubito fortemente. In me cresceva la raggia di chi si rende conto di essere raggirato, ma in effetti, a quel tempo, questo tipo di attività venivano effettuate, anche se in maniera pressoché inesistente. Con il tempo questi tipi di “professionisti” non si sarebbero nemmeno scomodati per effettuare un sopralluogo, figuriamoci eseguire le attività prescritte. “Paga e taci, ne abbiamo tutti e due di che giovarne, comunque, in caso di problemi, hai le carte che ti proteggono, tu il lavoro di ignifugazione l’hai eseguito e pure pagato, come legge comanda. “ Questo era il messaggio del capo della squadra dei due addetti all’ignifugazione. Chiaro, limpido e veloce.
Non so quanti di voi hanno mai dovuto affrontare situazioni del genere, ma se vi è capitato, sono quasi sicuro che il vostro pensiero ha analizzato, più o meno velocemente, tutte le opzioni che vi sono potute venire in mente. Prima di tutte, che cosa posso fare. Già, nel mille novecento novanta tre, in Romania, vigeva l’impressione e, non credo che fosse solo un’impressione, che il far west americano fosse una sorta di asilo nino per bambini. Ero uno straniero che non parlava quasi una sola parola di rumeno. Non avevo capito nemmeno tutti i meccanismi che governavano, la realtà, della vita reale, non quella scritta, male, sulle gazzette ufficiali. Avevo un progetto che, al momento, era tutto quello che potevo e volevo fare nel mio prossimo futuro, non volevo perderlo per una questione di principio. Per cui decisi di non decidere, o meglio, decisi di non oppormi a quel sopruso. Sì, avevo i documenti che attestavano che il lavoro di ignifugazione era stato effettuato. Era anche vero che il rischio di incendio, in quel luogo, sarebbe stato molto scarso, se non inesistente, ma questa non poteva essere una garanzia. Per cui la mia soluzione fu quella di sottoscrivere i documenti di chiusura dei lavori di ignifugazione e, simultaneamente, decisi che avrei acquistato della vernice ignifuga e l’avrei stesa personalmente su ogni singola trave in legno del tetto del “mio” capannone.
Il mio viaggio di ritorno, verso Padova, era stato molto lungo, come al solito direi, ma quella volta fu continuamente interrotto da soste che, quasi involontariamente, mi imponevo, giustificando a me stesso le più disparate ragioni. Arrivai a casa a Padova, dopo ben sedici ore di viaggio. “Ciao Giorgio, come va?” Era mattina verso le otto e mezza. Avevo viaggiato tutta la notte, tra una sosta ed un’altra. A laura avevo detto che dovevo tornare in Italia per verificare il lavoro di Paolo per la spedizione delle attrezzature e della prima merce, visto che il capannone era, praticamente, pronto a ricevere i primi materiali. Avevo anche assunto le prime tre persone che avrebbero dovuto assicurarmi la guardia dei materiali e per assicurare un minimo di condizioni di benessere, avevo istallato una stufa a legno in una piccola stanza del capannone, affinché si potesse rimanere anche di notte. “E’ un altro mondo, amico mio, un altro mondo, ma se non hai da fare questa sera, magari ci mangiamo una pizza insieme e ti racconto.” Giorgio era andato via, come sempre, sorridendo, stringendo l’inseparabile Marlboro tra le labbra. Io ero entrato in casa, lasciato la borsa nell’ingresso. La signora Ines, la nostra cameriera di sempre, l’aveva immediatamente aperta e come le altre volte, non aveva potuto esimersi dal constatare che tutti gli indumenti puzzavano di un odore molto acido. “Signore benedetto, ma dove sei stato? Mi pare che sei andato a lavorare in una discarica”. Girando il rubinetto della doccia, per un attimo, mi chiesi se ci sarebbe stata l’acqua. Iniziavo ad essere condizionato dalle situazioni che stavo iniziando a vivere a Zalau. Dopo aver trascorso un buon quarto d’ora sotto l’acqua calda, mi asciugai e mi ficcai, come se fossi un sasso, sotto le coperte del mio letto.
La sera mi svegliai perché Giorgio stava bussando prepotentemente sugli scuri della mia finestra “Vecio, alzati che andiamo a mangiare un boccone, forza dai!”
Non potevo fare a meno di paragonare ogni singolo dettaglio del mio tragitto verso la pizzeria con i vivissimi ricordi relativi ad un percorso altrettanto breve che separava il mio albergo, il Meseş di Zalau, alla Crama, quella sorta di ristorante dove avevo iniziato ad andare spesso. Innanzitutto i cavi sui pali dell’illuminazione stradale. In ogni paese, frazione o città che avevo visitato in Romania, non esisteva un angolo di strada che non avesse pali della luce, dell’illuminazione, del telefono o di qualsiasi altra funzione, che non fosse sovraccaricato, sino all’inverosimile, di cavi di qualche cosa. Allora, non c’era ancora internet, per lo meno non era decisamente diffusa come lo può essere oggi, ma la fame di libertà aveva come, pare, unico alimento, la televisione. Non essendoci emittenti private che trasmettessero via etere, televisione nazionale a parte, per poter vedere altri canali, tra i quali quelli della ProTv una nuova e promettente emittente privata, l’unico modo era il cavo. Di conseguenza, centinaia di chilometri di cavi penzolavano da un palo ad un albero per agganciarsi alle facciate dei palazzi per poi entrare in ogni singolo bloc. Da lì le ramificazioni correvano, disordinatamente, su per le scale, dove qualcuno aveva praticato dei fori nei pianerottoli, dai quali, questi cavi bianchi o neri arrivavano nelle scatole di derivazione e, finalmente negli appartamenti. Particolare molto interessante era che per far entrare i cavi negli appartamenti, si era scelta la strada più semplice, si era praticato un foro nello stipite di legno delle porte. Mentre per quelle installazioni che non entravano dagli ingressi dei bloc, bensì direttamente nelle case dei privati, il cavo entrava nell’abitazione, tramite un foro praticato nel telaio di legno della finestra.
Il punto di vista era semplice e si affidava ad un verbo che avevo iniziato ad odiare, sempre che si possa odiare un verbo: “merge ”, funziona, funziona lo stesso.
Ma i cavi non erano l’unico aspetto che mi lasciava rapito dalle differenze. Le strade non erano piene di buche, sì ce ne era qualcuna, ma erano rare. I margini delle strade erano curati e comunque c’erano i marciapiedi dovunque, mentre in Romania questo non era sempre vero ed il risultato era che le strade, quando pioveva, erano piene di fango e le macchine, di conseguenza, sembravano dei carri bestiame appena usciti dai campi dopo una giornata di lavoro. Inoltre le architetture delle case se messe a confronto, materiali a parte, impegnavano, in Italia, la fantasia, dato che ognuna era un tema diverso, un colore diverso, una forma diversa mentre in Romania, soprattutto le periferie delle città erano un monte di bloc tutti uguali, tutti grigi e, quasi, tutti, fatiscenti. Per non parlare delle tubazioni del sistema di tele riscaldamento che, quasi di Orwelliana memoria, violentava ogni singolo passaggio ed ogni singola strada, lasciando, spesso a causa delle poche e malfatte manutenzioni, importanti sbuffi di vapore acqueo che fuoriuscivano dai tombini delle strade.
Questa particolarità, soprattutto d’inverno, creava un’opportunità per quelle centinaia di ragazzi, spesso ancora bambini, che popolavano le maggiori città rumene. “Copii strazii ”. Questi giovanissimi, sporchi e perduti perdevano e, purtroppo, perdono tutt’oggi, le loro esistenze, annusando le vernici che raschiano dai pali dell’illuminazione, diluiti con benzina od altri tipi di solventi, per cercare, suppongo, di dimenticare la fame, il freddo e la loro storia di emarginati, colpevoli, di essere nati da madri e padri ignoranti e spesso, al pari della loro progenie, figli di altre, se non delle stesse, strade.
“Mi piacerebbe accompagnarti durante il tuo prossimo viaggio in Romania, quello che mi racconti sa di incredibile.” Raccontare a Giorgio le mie emozioni, i miei ricorsi e le mie impressioni, era come esorcizzare il demone dell’assuefazione. Il suo stupore mi garantiva il fatto che non iniziassi a credere che ero io ad avere dei problemi nell’accettare quello che in Romania era, per la stra grande maggioranza della gente, una situazione “normale”. Era anche vero che accettare il concetto di “merge” significava anche risparmiare dei soldi. Almeno per l’inizio. Ma questo era un altro punto che accomunava moltissimi rumeni. La penuria di contante costringeva moltissime persone a nemmeno considerare un’alternativa che fosse anche di pochissimo più costosa, per cui “merge” era la giustificazione dominante e, universalmente, accettata. “Dimmi tu quando puoi venire, io questa settimana rimarrò sempre qui, devo organizzare il trasferimento delle attrezzature e dei primi materiali. Puoi anche non dirmelo, la mattina che parto, Sali in macchina e ce ne andiamo via insieme.”

Continua…

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