Retezat 34
Ero arrivato di buon’ora a Bozna. Quel posto aveva qualcosa di magico che non so se risiedesse nel fatto che avrebbe rappresentato il mio futuro o perché era, semplicemente, bello. Entrando nella proprietà, che non era recintata, mi accorsi che c’era un giovane dall’aspetto molto curato e dal fisico possente, che stava spostando della legna all’interno del suo cortile. Aveva una folta capigliatura, cosa che io avevo dimenticato da molto, ed un paio di occhiali molto spessi. Mi sembrava di averlo già incontrato, ma non ne ricordavo il nome. Ho sempre avuto una memoria fotografica eccezionale, ma una pessima per i nomi e le date.
Non appena posò per terra un mezzo tronco, che doveva pesare almeno una settantina di chili, alzò la testa e mi salutò con la mano. Per educazione mi avvicinai alla sua rete per stringergli la mano. In Salaj, la contea di cui Zalau era capoluogo di provincia, la gente non usa trincerarsi al riparo di muri di cinta invalicabili. In quella zona se la gente usa delle reti ai loro confini, le usa non per impedire l’ingresso agli estranei, ma, soprattutto, per non far scappare i propri animali dalla loro corte. Di fatto la gente del luogo era molto ospitale e gentile e non lo era da meno Calin, il vicino che stringendomi la mano mi aveva quasi rotto un paio di falangi. Non so se fu il dolore, che cercai di dissimulare elegantemente, ma immediatamente dopo aver ritirato la mia povera mano, mi ricordai che Calin era nell’aula della scuola dove avevo perorato, con profitto, la mia causa. In un inglese approssimativo ma efficace mi fece capire che desiderava invitarmi a pranzo più tardi, cosa che io accettai di buon grado. Ero molto curioso di conoscere una persona con la quale, presumibilmente non avrei avuto altri che contatti di buon vicinato. Inoltre, mi era piaciuta così tanto la casa del sindaco Romitan, che ero curioso di vedere se anche altre case erano arredate e distribuite come lo era quella del sindaco.
La dacia del tecnico dell’Electrica aveva appena parcheggiato nel vialetto di terra battuta che portava all’ingresso del capannone. MI fece cenno, uscendo dalla macchina, di seguirlo all’interno dello stabile. Immaginavo che volesse vedere dove si trovava il punto di entrata dei cavi elettrici. Invece la prima cosa che fece appena fummo al riparo da altri sguardi, mi tese la mano perché, fu questa la mia presunzione, gli consegnassi quanto aveva deciso che gli pagassi. Non aveva nessuna forma di pudore, se non quella di allontanarsi dallo sguardo dei vicini. Per cui, presi dalla tasca del mio giubbotto la busta che avevo già preparato e gliela consegnai. Controllò con molta attenzione che il pattuito fosse tutto contenuto nella busta e, dopo essersene convinto, uscì dallo stabile per rientrarci dopo qualche minuto, con un contatore della corrente elettrica in mano.
Senza dire una parola, collegò con perizia i cavi che entravano nel muro dell’immobile, al nuovo contatore uscì di nuovo per strada. Salì con un’agilità non comune, sul palo della luce che si trovava proprio all’uscita della proprietà, fece qualcosa che non capii e ridiscese velocemente per rientrare nel capannone.
Dopo aver controllato che il contatore fosse alimentato, cosa che provò semplicemente inserendo in una presa elettrica, molto approssimativa, una lampadina elettrica alla quale erano stati saldati due cavi elettrici sul bulbo della stessa, rimise la lampada in tasca, accennò ad una sorta di saluto avvicinando, velocemente, la mano alla testa, a mo’ di saluto militare e se ne andò con la sua Dacia, lasciando una scia di fumo denso e bianco.
Il mio capannone aveva la corrente elettrica. Avevo ottenuto un contatore ed un’istallazione in pochissimi minuti ed il costo dell’operazione era stata di settanta marchi tedeschi. Veloce, efficace ed assolutamente non etico.
Il giorno precedente, in dogana, avevo avuto quasi un moto di repulsione ed avevo avuto bisogno di fumare un paio di sigarette prima di trovare la forza di tornare nell’ufficio di Marius. Lì, forse perché tutto era accaduto così velocemente, che non avevo avuto il tempo nemmeno di capire che cosa era successo. Solo una cosa avevo compreso molto bene, se volevo continuare la mia avventura in Romani, avrei dovuto conoscere e, spesso accettare, molte questioni che, con molta probabilità, non avrei accettato in altre situazioni.
Calin stava tagliando dei ceppi di legno con un’accetta enorme. Ne aveva accumulati già molti, ma era normale. Il legno era l’unica fonte di energia per scaldare quelle case, non c’era il gas e l’unica alternativa rimaneva la corrente, ma era troppo costosa. Per cui il legno, che non mancava di certo in quella zone, era l’unica fonte possibile.
Calin era un po’ più alto di me, ma decisamente più possente. Appena vide che mi ero liberato dal tecnico dell’Electrica, mi sorrise e mi fece cenno che mi aspettava per il pranzo da lì ad un paio d’ore. Gli feci capire che ero d’accordo e che non avrei tardato. Nel frattempo volevo tornare nel mio capannone per vedere, immaginare per lo più, quali sarebbero state le primissime cose da costruire o da sistemare per poterlo rendere utilizzabile.
Stavo controllando il piano terra che sentii una voce chiamare “Domnul, Domnul… ” Era una donna. Non credo che avesse più di trent’anni, ma ne dimostrava almeno cinquanta. Aveva un vestito largo ed un grembiule, piuttosto sporco, con delle tasche molto capienti. “Eu vreu sa lucrez la dumneavoastra ”. Non capivo che cosa stesse dicendo e cercai di farmelo ripetere. La donna, senza minimamente scomporsi, mi ripetette esattamente le stesse parole, senza nemmeno scandire meglio la sua pronuncia, non che sarebbe servito. Non sapendo come risponderle, visto che sia la mia risposta in italiano che in inglese non aveva sortito nessun risultato, a gesti, le feci capire che ne avremmo riparlato più tardi, possibilmente un altro giorno. Non so se mi comprese, ma fatto sta che dopo pochi minuti, senza accennare a nessun altro discorso né, tanto meno, ad un saluto, si girò sui suoi tacchi, e se ne andò.
La tavola a casa di Calin era imbandita in maniera molto sobria, ma tutto era pulitissimo. Il rito della Tzuica, almeno questa volta, non mi trovò impreparato e, memore delle precedenti esperienze, mi ben guardai dal vuotare completamente il mio bicchiere.
La ciorba di burta era buonissima, così come lo era il pollo al forno con le patate che avevano preparato. In realtà non vidi altre persone in case, fatta eccezione dell’anziana signora che capii fosse la madre del mio ospite, che doveva essere stata l’artefice di quell’ottimo pranzo.
Non parlammo quasi per nulla. Calin cercava di insegnarmi delle parole di uso comune ed ogni volta che prendeva in mano qualcosa dalla tavola, mi ripeteva, almeno un paio di volte, il nome dell’oggetto che stringeva in mano e mi esortava a ripetere. La cosa mi sembrò particolarmente buffa all’inizio, ma dopo pochi minuti, capii qual era il messaggio. “Sei ospite nella nostra terra, devi imparare la nostra lingua per poter apprezzare, capire accettare oppure non accettare quello che ti verrà proposto.” Da quel momento in poi posi molto più entusiasmo ed interesse nel comprendere gli idiomi che Calin si sforzava di farmi imparare. Questo lo fece contento, avevo capito il suo messaggio. Il suo invito a pranzo aveva avuto uno scopo ben preciso. Prima di tutto aveva deciso che voleva misurarmi e, poi, se avessi superato il suo test empatico, mi avrebbe aiutato, ma non prendendomi per mano, bensì, semplicemente, indicandomi un percorso, stava a me capire e decidere se seguirlo oppure no. Tutto era molto simile al modo di ragionare che avevo imparato a riconoscere e decodificare durante le mie vacanze in Sicilia. Sembrava lo stesso codice ma spiegato in un’altra lingua.
Dopo esserci goduti un mezzo toscano che gli offrii con grande piacere e che, con grande piacere fumammo, mi invitò ad uscire in cortile e quando fummo davanti alla pila di ceppi ancora da tagliare, mi porse una scure e mi invitò a tagliare la legna. Non persi un secondo di tempo ed iniziai a tagliare i ceppi con foga. Calin, che nel frattempo aveva iniziato a tagliare anche lui, mi sorrideva e ripeteva “gimnastica, gimnastica!”
Continua…