Retezat 30
“Emil, Calin ho bisogno del Vostro aiuto adesso. Laura mi ha detto che ci sono delle richieste legali per poter avere l’autorizzazione ad iniziare l’attività vera e propria, ma di queste mi occuperò dopo che avremo completato alcuni passi fondamentali, uno fra tutti la corrente elettrica. “
Avevo visto che proprio davanti la proprietà che avevo affittato, c’era un palo della luce. Non credevo che sarebbe stato un problema poter allacciarmi alla rete, ma, come avrei continuato a scoprire a spese del mio fegato, prima, e del tempo che scorreva inesorabile verso le mie, già, prudenti scadenze, nulla di quello che sembrava ovvio lo era. Anzi. Emil conosceva qualcuno che lavorava all’azienda che distribuiva la corrente elettrica, “Electrica”. Ecco che mi scontravo, di nuovo, contro la logica del “chi conosciamo?” La mia natura di meridionale acquisito, rifiutava quella logica. Le istituzioni, le società dovevano funzionare secondo parametri omogenei, condivisibili e, soprattutto, etici. Per quale motivo, soprattutto quando si trattava di un servizio pubblico, dovevo rivolgermi a qualcuno all’interno dell’organizzazione per ottenere qualcosa che mi spettava di diritto? Dovevo rivolgermi allo sportello aperto al pubblico ed ottenere tutto quello di cui avevo bisogno. Ma in Romania, come in gran parte della nostra Italia, soprattutto del centro e del sud, il sistema era completamente diverso. Bisognava sperare di conoscere qualcuno per ottenere anche le più banali risposte altrimenti si correva il serio rischio di attendere per tempi infiniti, comunque, non ottenere nulla. Il sistema era ben studiato e serviva tutti i livelli, dall’uscere dell’organizzazione sino ai vertici della stessa. Tutto finalizzato ad ottenere dei vantaggi illeciti, ovviamente. Il contatto che, tramite i miei nuovi amici rumeni ero riuscito ad ottenere, era un semplice elettricista dipendente dell’Electrica. In qualità di elettricista era abilitato all’installazione dei contatori. Con l’aiuto di Laura, ci incontrammo alla “Crama” di Zalau, dove mangiammo un immancabile ciorba di burta e del cascaval pané. L’elettricista, Ioan, era un giovane di non più di venti sei anni. Alto e dall’aspetto decisamente sveglio. Dopo velocissimi convenevoli, dai quali capì immediatamente che ero uno straniero, mese sul tavolo la sua richiesta. “Cento dollari”. Al momento la mia richiesta di allacciamento alla rete elettrica era già stata depositata presso la segreteria dell’Electrica. Quel dossier era nelle mani di Ioan. “Laura, digli che voglio sapere che cosa ottengo pagando questi cento dollari, per favore.” Dopo aver sentito la richiesta in rumeno, Ioan, leggermente divertito, rispose laconicamente, “curentul”. Non disse molto altro, finì il suo pranzo, bevve tre lattine di coca cola, riuscì a trattenere a stento alcuni rutti, tranne un paio che suonarono a mo’ di inno e dopo essersi sincerato che avessi capito che sarebbe venuto il sabato seguente alle nove del mattino per installare il contatore, se ne andò.
Non avevo partecipato direttamente ad un’azione del genere, se non da spettatore. Prima con il rossetto di Liana, poi con i fiori di Maria, volendo scordare il mio primo passaggio in dogana, ma quella volta ero nel mezzo di una situazione che, per me, era non solo nuova, era anche preoccupante. Stavo per commettere un reato? In realtà non avevo capito bene cosa sarebbe successo. Nel mio modo di vedere le cose, quell’obolo, che non avevo ancora profuso, serviva per velocizzare un’installazione che, altrimenti, sarebbe avvenuta chissà quando. Di fatto, nel depositare la mia domanda di allacciamento, avevo anche pagato una tassa che, era stata conteggiata in rapporto alla potenza richiesta per l’allacciamento. Se ne erano preoccupati Emil e Calin che, previdentemente, avevano avviato, in mia assenza, il processo burocratico per ottenere l’allacciamento. Quindi quello era un di più, una sorta di obolo che dovevo pagare, soprattutto perché ero stato stupido e mi ero presentato in prima persona, rilevando, di fatto, la mia nazionalità che, ai più, era considerata quale una fonte di denaro da ottenere in una qualche maniera.
“Laura, mancano ancora due giorni a sabato, vorrei andare in dogana per capire cosa devo fare per ricevere la merce di cui avrò bisogno per iniziare a lavorare.” Al solito Laura era monosillabica, ma quella volta mi sembrò leggermente più collaborativa. Forse stava entrando nella parte, aveva capito che il mio viaggio in Romania non significava affatto una semplice perdita di tempo. Aveva iniziato a capire che facevo sul serio. Inoltre non mi aveva mai visto uscire dal seminato. Non avevo mai deviato i miei discorsi per cercare di entrare in territori diversi da quelli che erano strettamente inerenti al mio progetto. Per essere espliciti, oltre alle richieste legate ad ottenere informazioni circa alcune procedure per ottenere documenti ed autorizzazioni, ero interessato a tutto quello che era legato alla mentalità ed alle usanze della gente. Non era solamente curiosità, anzi. Era importante, per me, conoscere quali potevano essere le reazioni della gente al cospetto di situazioni che avrebbero potuto presentarsi durante la mia attività imprenditoriale. Dovevo cercare di armonizzare le mie necessità lavorative con il carattere della gente del posto. Non ero tanto stupido da credere che ne avrei potuto modificare il comportamento semplicemente perché lo dicevo io.
Era la prima volta che mi trovavo all’estero per qualcosa che non fosse una vacanza e, per esperienza, avevo imparato che anche in Italia, quindi nella stessa Nazione, semplicemente cambiando regione, cambiavano le abitudini, gli usi e le consuetudini. Mi bastava assimilare la ricorrente domanda che veniva rivolta ad amici e parenti, quando uno di loro, al centro od al sud, doveva recarsi presso degli uffici pubblici per ottenere anche un solo certificato “Conosci qualcuno in Comune?” con quello che stava accadendo a me, lì, allora, in Romania. Era la stessa identica cosa, cambiava la lingua.
La giornata era andata spesa per ottenere l’incontro con l’elettricista Ioan, il relativo pranzo, che, a dire il vero, avrei potuto tranquillamente evitare, ed una breve passeggiata nel centro di Zalau, dopo aver accompagnato Laura a casa.
La piazza principale ospitava sempre la solita fila di persone che, armate di pazienza e di diverse bottiglie di plastica, restavano diligentemente ed ordinatamente in coda per rifornirsi di acqua potabile dalla fontana all’angolo della stessa. Le vetrine dei negozi erano tristi e spoglie. I palazzi sempre più sbilenchi e malandati. Per fortuna il contorno dettato dal paesaggio era meraviglioso. Purtroppo la natura non era sufficiente a supplire alle malefatte dell’uomo, per cui il puzzo della centrale termica, nonostante i tantissimi boschi che circondavano Zalau, non erano sufficienti a ricambiare l’aria annorbata dai gas di scarico della centrale e dalle altre fabbriche, prima tra tutte la Silvania e la SilcoTub. Non potevo immaginare che cosa sarebbe stato se non ci fossero stati quei polmoni di verde.
Dopo pochi passi ero arrivato alla sommità di una piccola collina, nel centro della città, dove c’era il mio hotel. Non mi restava altro che andare a dormire, ma avevo fame, per cui deciso di fermarmi al ristorante dell’hotel per mangiare qualcosa. Quando entrai nella hall, mi venne in mente di chiamare Walter, così lo chiamai per invitarlo a cena. “Gianmaria, ti ringrazio, ma vieni tu da me, mi hanno regalato delle lepri, forza vieni, ho preparato un ragù da leccarsi i baffi.” Non riuscii a rinunciare a quella che si presentava come un’ottima cena, per cui, mi girai sui tacchi e mi incamminai verso la casa di Walter. Camminando di buona lena, decisi che dovevo trovare anche io un appartamento. Lo avevo già pensato, ma l’idea di avere un posto dove poter cucinare qualcosa di diverso da quello che offrivano i soliti locali di Zalau, era decisamente allettante. Oltre tutto c’erano altri vantaggi, e non pochi.
Le pappardelle al ragù di lepre, preparate da Walter, erano una vera leccornia. Avevo raccontato tutto quello che mi era accaduto in quei giorni ed avevo enfatizzato l’evento del rossetto dato in prepagamento per ottenere che l’impiegata delle ferrovie dello Stato controllasse la disponibilità di una cuccetta, prima di dire che non ce ne erano disponibili e, Walter e Rodica iniziarono a ridere. “Tu non hai la benché minima idea a cosa devo assistere io per procurarmi il legno dalla RomSilva. Questa era la società dello Stato che gestiva il patrimonio boschivo rumeno. Una sorta di Guardia Forestale italiana con la differenza che la superficie boschiva rumena surclassava alla grande quella italiana. Tutto quello che aveva una qualche attinenza con il legno, era governato dalla RomSilva o, per essere più precisi, dai dipendenti, pubblici, della RomSilva. “Avremo tempo per scambiarci i nostri aneddoti, non preoccuparti. In ogni caso ce ne sono talmente tanti e talmente tanti altri se ne aggiungeranno, che potrei scrivere un’enciclopedia, stanne certo.”
Si era fatto tardi, aveva iniziato anche a piovere, ma non accettai che Walter mi accompagnasse in albergo come si propose. Avevamo bevuto qualche bicchiere di vino ed una fortissima, la Tzuica, e date le regole del codice della strada, ma soprattutto ‘attitudine dei controllori, non era il caso di prestare il fianco a situazioni dispiacevoli, per cui chiamammo un taxi che, dopo pochi minuti, parcheggiò difronte all’ingresso dell’Hotel Meseş.
Entrando, mi resi conto che qualcosa non andava per il verso giusto. Il volume della musica era decisamente alto e le voci, miste a fragorose risate, che provenivano dalla sala ristorante, non erano da meno. Con fare preoccupato ma con un tono decisamente fermo mi rivolsi all’addetta alla reception, chiudendole fino a che ora sarebbe andata avanti quella situazione. Con fare timido ed anche un po’ preoccupato, mi fece capire che non sarebbe andata avanti per molto. Forse per la stanchezza ed i due bicchieri di Tzuica, decisi di crederle e me ne salii in camera mia.
All’una e mezza quel fracasso infernale, invece di attenuarsi aumentava di volume. La mia camera era al primo piano e, sfortunato me, era per metà proprio sulla sala ristorante. Mi rivestii imprecando e scesi nuovamente nella hall. “Ma che diavolo, è l’una e mezza, e questa non è una discoteca è un albergo, fateli smettere!” Silvia, l’addetta alla reception, mi sorrise timidamente “non si arrabbi, tra poco smettono” sembrò dirmi. Parco della mia prima sfuriata me ne risalii in camera. Mi rispogliai e mi rimisi a letto. Tutto accadde meno che la festa finisse. Aspettai un altro quarto d’ora che mi sembrò l’equivalente di una settimana e, con un crescendo di imprecazioni sempre più variegate, mi rialzai dal letto, mi rivestii e riscesi nella hall. Questa volta avevo intenzioni molto più che bellicose. Ero stanco, avevo sonno e l’indomani sarei dovuto andare in Dogana per parlare con un conoscente di Laura, un tale Marius, che era il proprietario di una società di spedizioni doganali. “Voglio parlare con la direttrice di questo posto, adesso.” Silvia mi fece capire che non c’era, se ne era andata a casa alle sette e mezza. “Giusto”, commentai, “come puoi rimanere in un tale casino.” In quel mentre, dalla sala ristorante uscì un signore sulla cinquantina. A dir il vero, prima di lui uscì la sua pancia e dopo qualche istante il resto del corpo. Il viso era chiaramente appartenente ad una persona che non aveva lesinato con la tzuica, anzi. Sigaretta tra le labbra, cravatta allentata e camicia per metà fuori dai pantoni, appena mi vide, si avvicinò e con uno stranissimo accento mi chiese da dove venivo.
Non ero in animo di conversare, tutt’altro, ma gli risposi con l’intenzione di provocare una discussione al fine di concludere quel casino infernale. “Sono italiano e..” non riuscii a dire una sola sillaba in più. Mi prese il viso tra le mani sudaticce e mi stampò un bacio sulla fronte. “Italianu, ce frumuos, hai la noi, hai la noi…” e senza capire le parole ma comprendendone, con terrore, il senso, mi prese la mano e mi trascino, letteralmente nella sala ristorante. Se la musica nella hall, e nella mia camera era assordante, nel ristorante era impossibile. Appena fummo dentro, l’omone che mi aveva appena strascinato dentro, sollevò un braccio ed il satanico disk jokey spense la musica in un istante. “Acest dom este din Italia. E prieten cu mine, hai sa bem ceva.” Non capii una sola parola ma immediatamente dopo aver completato la sua frase di introduzione, la musica ricominciò istantaneamente a tuonare, forse, più forte di prima e quasi tutte le altre persone che partecipavano alla festa, circa una cinquantina, si fiondarono verso di me per salutarmi, chi porgendomi la mano chi, senza preavviso, baciandomi sulle guance, in fronte ed in un caso, anche, sulle labbra. Ero terrorizzato ed impotente allo stesso modo. Non avevo nessuna scelta che sedermi ad un tavolo dove c’erano altre dieci persone che fumavano e bevevano in continuazione. Non appena riuscii a sedermi mi riempirono un bicchiere con della tzuica, uno con dell’acqua minerale ed un altro con la birra. Una donna piuttosto carina, dopo avermi chiesto una decina di volte qualcosa che, non solo a causa della musica, non capii, mi versò nel piatto una sorta di poltiglia verde pallido ed una serie di altre pietanze che non avevo mai visto prima. La cosa che mi sconvolse più di tutto, oltre al refrain di quella musica popolare che li faceva ballare tutti quanti, era il fatto che la festa era in onore del battesimo del nipote del signore che mi aveva trascinato nel locale e di cui non seppi mai il nome, non perché non si fosse presentato, ma perché a causa della musica e della tzuica, non riuscii a capire nulla, e che il neonato stesse dormendo nella carrozzina che era situata accanto al tavolo dei genitori avvolto da una nuvola di fumo denso come la panna ed assordato da quella musica assurda. Ma dormiva. A dire il vero per un istante pensai che fosse deceduto. Mi sembrava decisamente impossibile he un qualsiasi essere umano potesse dormire in una situazione come quella. Ma mi sbagliavo, dormiva proprio. Forse, durante l’ultima poppata, avevano allungato il latte con la tzuica, non lo seppi mai, ma il risultato era che tra i virtuosismi registrati di quei violini che sembravano impazziti, il fumo gli schiamazzi delle persone, le risate ed i rumori provocati di qualche piatto che, inesorabilmente finiva in frantumi, quel bambino stava dormendo. Un sano allenamento per sopportare quello che avrebbe percorso nella sua vita.
Continua…