Retezat 28
Il rossetto che Liana aveva consegnato alla bigliettaia dell’agenzia di viaggio delle Ferrovie dello Stato era servito, solamente, per ottenere un posto nella carrozza vagone letto. Era come dire che per poter ottenere un posto in un taxi avrei dovuto pagare, in nero, un addetto della compagnia dei taxi perché potessi utilizzare un taxi offerto dalla compagnia. Una sorta di aberrazione assolutamente incomprensibile. “Ma se non le avessi dato il rossetto?” “Non ci sarebbero stati posti disponibili nel vagone letto.” Semplice e terribile allo stesso momento.
Già mettendo un piede nell’androne della stazione centrale di Cluj-Napoca, avevo capito che avrei dovuto effettuare un grosso sforzo di volontà per accettare di viaggiare, una notte intera, in un vagone letto di un treno delle ferrovie di Stato rumene. Quando vidi il vagone, capii che lo sforzo previsto non sarebbe stato sufficiente. Quanto, dopo aver salutata Liana, che gentilmente, come al solito, mi aveva accompagnato alla stazione, avevo preso possesso della mia cabina, dovetti dare fondo a tutta la mia forza di volontà.
Il treno era, ancora, fermo sul binario. Un altro stava partendo dal binario accanto al mio, ma partì con le porte aperte. I miei ricordi di gioventù, quando andavo in Sicilia da Padova in treno. Il treno non partiva nemmeno se lo ordinava il Papa se una sola delle porte delle carrozze erano aperte. In Romania, forse a causa delle velocità ridicole alla quale viaggiavano i treni, praticamente nessuna porta dei vagoni veniva chiusa. Non aveva mosso un metro e mi sembrava di aver superato tutti i limiti di accettabilità. Non avevo fatto bene i conti che iniziarono ad apparire con tutta la loro complessità non appena il treno iniziò la sua corsa, si fa per dire, verso Bucarest. Le linee dei binari, non essendo manutenute da decine d’anni, si erano deformate ed erano tutto tranne che delle rette parallele. Sembrava come ad ogni singolo giro di ruota il treno stesse per deragliare. Non appena passava sopra degli scambi, il grado del movimento sussultorio combinato con quello ondulatorio, era talmente tanto, che non avevo nessun dubbio che da lì a qualche secondo, il treno, con me dentro, avrebbe deragliato veramente.
Non avevo percorso che poche decine di chilometri e la mia angoscia crebbe a dismisura quando realizzai che ne mancavano ancora oltre cinquecento.
Rimanere sdraiato era praticamente impossibile. Più di una volta, nel corso di quel viaggio allucinante, rischiai di essere sbalzato fuori dalla cuccetta che, per fortuna era quella bassa. Oltre al movimento tellurico c’era l’odore stantio del compartimento. Non ho mai capito perché le lenzuola della cuccetta non coprissero completamente il materasso, ma le due estremità non venivano coperte dal lenzuolo. Dove appoggiava la testa c’era il cuscino ad ovviare a questa mancanza, ma i piedi, se non avessi deciso di tenere le calze, avrebbero dovuto sopportare il contatto con il materasso della cuccetta che, per la stessa ragione, era stato toccato da chissà quante centinaia di altri piedi. È ovvio che non riuscii a chiudere occhio tutta la notte e non so se fu solo la paura di deragliare e terminare la mia avventura imprenditoriale prima di iniziarla, o l’impossibilità fisica dettata dal movimento tellurico generato dai binari malandati. A nulla valsero i mei tentativi di leggere qualche pagina dei “Pilastri della terra”, anzi, per un paio di volte, il tomo, di per sé decisamente pesante, sbattè violentemente sul mio naso. Non vedevo l’ora di arrivare a Bucarest. Anche l’attività più elementare risultava quasi impossibile. Bere dell’acqua, rimanere in piedi per infilarmi i pantaloni.
Bucarest, sette e trenta del mattino. Stazione centrale “gara de nord”. Ero provato più di quanto lo fossi stato se avessi percorso quei cinquecento chilometri completamente a piedi. Tanto stanco che non notai, non quanto avrei dovuto, lo stato della stazione e la sensazione di abbandono e di incuria che emanava ogni singolo elemento della stessa. L’appuntamento con l’amica di Liana era per le otto all’uscita dell’edificio. Mancava poco meno di mezz’ora e cercai un bar dove poter prendere qualcosa di caldo. Come immaginavo, c’erano molti bugigattoli che proponevano caffè, quanto meno era caldo, “langos” ed altre, improponibili, prelibatezze locali. Decisi di incamminarmi verso l’uscita. Il colonnato imponente della stazione si apriva su una strada a quattro corsie, al di là delle quali, c’era un parcheggio. Liana mi aveva descritto la sua amica e mi aveva mostrato delle foto. Non mi fu difficile riconoscerla. Non era molto alta, vestita bene, con un’andatura così fiera da renderla decisamente diversa dal resto della gente che stava affollando quel porticato in quel momento. “Ciao, sei Maria, non è vero?” Parlava un italiano praticamente perfetto e, senza mezzi termini mi disse che dovevamo sbrigarci per andare al ministero delle finanze. Per strada si fermò ad un chiosco che vendeva fiori e comprò un bouquet molto ricco di fiori freschi. Faticai a farle accettare i soldi che aveva speso per acquistarlo. “Ma cosa ci fai con questi fiori?” La sua risposta su tanto laconica quanto secca “vedrai.”
Salimmo su di un taxi. Per me fu il battesimo della Dacia 1380. Avevo già viaggiato con una Renault 12 quando ero piccolo ed andavo, con il mio amico Ettore, all’ippodromo delle Padovanelle, a Padova. E già allora, quella macchina, che era l’emanazione della Dacia 1380, era vecchia. Ma quel taxi non era solo vecchio era preistorico. Il sedile posteriore, visibilmente rimbottito di recente con della gomma piuma era talmente strano che mi sembrava essere un piumone. L’odore era lo stesso di un posacenere lasciato pieno di cicche sulle quali erano state versate alcune gocce d’acqua. Le porte si socchiudevano, dato che il verbo chiudere era solo un verbo. Fu come non fu che tra una gimcana, un tentativo di frenata, compatibilmente con il grado di usura degli stanchi ferodi, arrivammo di fronte al ministero dove Maria avrebbe procurato il mio certificato d’investitore. Con me avevo tutti i documenti che mi aveva chiesto di portare, ma non mi fece entrare con lei negli uffici di quell’immenso palazzo nei pressi del palazzo del popolo. “Tu mi aspetti qui, non dovrei metterci più di un’ora, ma non ti allontanare troppo, potrei anche risolvere tutto in meno tempo.”
Ero lontano solo un centinaio di metri dal posto dove ci eravamo dati appuntamento. Minacciava di piovere ma ancora non si era deciso sul da farsi. Il Palazzo del popolo, una costruzione immensa, più piccola solo del pentagono, era stata l’ultima follia di Ceausescu. Una accozzaglia di stili diversi, dove solo la grandezza era rimarcabile. Un parco immenso e tutta l’architettura a corredo, studiata apposta per ingigantire la già immensa figura del palazzo. Non ero andato a Bucarest per motivi turistici e, francamente, provavo una sorta di sconforto che, al momento, non sapevo ben definire. Forse era quella città, che per quel poco che avevo visto, mi sembrava priva di identità, violentata, come lo era stata, dalle bramosie imperialistiche di un regime pieno di irrisolte ed irrisolvibili contraddizioni.
Era passata quasi un’ora e Maria, con il suo passo spedito, stava uscendo dall’imponente uscio del ministero. Al posto del bouquet di fiori, adesso, aveva un foglio che non appena mi fu a pochi passi, mi mostrò con non celato orgoglio. “Questo è il mio record. Solo quarantacinque minuti per ottenere il certificato di investitore!” Non dissi altro che “Brava!” ed anche se ero curioso di saperne di più, forse perché, empaticamente, mi fece capire che non me lo avrebbe detto, mi limitai a prendere il certificato tra le mani e di leggerne il contenuto. Oltre ad un timbro enorme, simbolo incontrastato del potere costituito e dell’identità inconfutabile dell’ente emittente, secondo le credenze post comuniste, c’era il nome assurdo dell’azienda che avevo acquistato solo poche ore prima ed il numero di serie del certificato. Con quel documento, la mia nuova azienda, grazie alla legge trentuno del millenovecento novant’uno, avrebbe goduto di ben cinque anni di esenzione dal pagamento dell’iva, dall’esenzione dal pagamento dei dazi doganali e, dulcis in fundo, riduzione al dieci per cento delle imposte sul profitto realizzato. Una sorta di manna che giovò solamente in parte alla ripresa economica del Paese, dato che, per scelte politiche più ottuse che lungimiranti, la Romania favorì quasi esclusivamente, gli investimenti delle multinazionali agli investimenti, molto più ridotti ma capillari, della piccola e media imprenditoria. Ma queste erano considerazioni che allora, com’è giusto comprendere, non rivestivano nessuna importanza nei miei ragionamenti di neo imprenditore, anzi, neppure esistevano, dato che le mie preoccupazioni erano tutte focalizzate a quello che mi stavo accingendo a svolgere.
Avevo tutte le carte di cui avevo bisogno, adesso dovevo iniziare a costruire veramente qualcosa.
Continua…