Spazio Italia - Radio Timisoara

Spazio Italia - Radio Timisoara

26/09/2016

Retezat 24

20160918_140742
La mamma di Liana mi trattò come un sultano. Il loro appartamento era modesto, ma molto pulito ed ordinato. Si trovava al sesto piano di un bloc che di artistico non aveva nulla, come del resto tutti gli altri bloc costruiti dai comunisti. L’impressione che fossero stati concepiti per demolire ogni forma di fantasia, continuava ad essere fortemente presente. La cucina era così piccola che era difficile immaginare come fosse riuscita a sfornare tali e tante leccornie. Dopo un così lauto pranzo che, onestamente, iniziai perché mosso dalla curiosità di assaggiare la cucina rumena, di cui avevo avuto un ‘alcolico’ aperitivo nella casa del Sindaco Romitan, ma continuai con estremo piacere dopo aver costatato che tutto era veramente delizioso, anche se un po’, almeno per il mio stomaco, pesante.
“Florica, questo è Gianmaria, un mio amico italiano che dobbiamo aiutare a risolvere un piccolo problema” Eravamo andati quasi di corsa a casa del notaio amica di Liana. Eravamo entrati in casa, ci eravamo presentati e, senza perdere un secondo, avevamo definito il da farsi. Avrei dovuto tornare a Cluj-Napoca anche il giorno dopo e, molto probabilmente avrei dovuto restare per un paio di giorni per completare tutte le incombenze. Poco male, avrei riportato a casa a Zalau Laura, di cui mi ero già pentito di averla portata con me quella mattina, e sarei ritornato a Cluj-Napoca la mattina seguente molto presto.
Il giorno seguente, durante il viaggio verso Cluj-Napoca, ascoltai ripetutamente un compact disc dei SuperTramp, dire che ero eccitato è poco. Sentivo una forza crescente, irrefrenabile che invadeva tutto il mio spazio ed, a quanto pareva, anche coloro che mi stavano accanto. Il mio crescente entusiasmo avvolgeva tutto e coinvolgeva tutti coloro ai quali ero riuscito a trasmettere anche una solo, minima, parte dei miei progetti e dei miei sogni. Senza Laura mi sentivo ancora più libero, non ho mai capito perché continuai a tenerla nonostante generasse in me sentimenti decisamente contrastanti. Con il senno del poi, avrei fatto molto bene a lasciarla a casa sin dai primi giorni, ma, come si suol dire, “se mio nonno avesse avuto cinque palle sarebbe stato un flipper”.
Appuntamento all’atelier di Liana. Questa volta arrivai puntuale. Liana mi aveva preparato il caffè, che a dir il vero, non era buono, ma non le detti a capire che non mi piaceva. Dopo poco ci trovavamo nell’atrio del Tribunale di Cluj. Fino agli anni novantacinque, i notai erano dipendenti dello Stato ed avevano il loro ufficio nei tribunali. Più che di un ufficio si trattava di una scrivania tra tante scrivanie occupate da altri notai. La coda di persone in attesa di una vidimazione, un timbro o qualunque altra questione legata ad aspetti che necessitavano la firma del notaio, era immensa. Florica era l’unica che spendeva qualche minuto in più per spiegare alla gente che sedeva a turno, davanti a lei senza nessuna riservatezza, quali erano i passi importanti del documento che avevano appena firmato. La maggior parte degli altri notai di Stato avevano un comportamento che lambiva la più volgare delle maleducazioni. La gente, soprattutto, la povera gente, e ce n’era veramente tanta, la ringraziava ed i più, le lasciavano un piccolo segno della loro riconoscenza, che lei più per dovere che per necessità accettava. Il risultato era che la sua coda era la più lunga, ma anche la più composta di tutte le altre code. La sera prima, con l’aiuto di Liana, mi aveva spiegato cosa avrei dovuto preparare e scrivere sui documenti. Allora non facevo un passo senza il mio computer portatile e la mia piccola stampante a getto d’inchiostro. Una delle difficoltà maggiori era quella di redattare documenti in tempi veloci, fare fotocopie ed altre questioni che potevano farti perdere giorni interi. E quel giorno al tribunale di Cluj-Napoca non feci eccezione. Tra lo stupore, discreto, di tutti i presenti in quell’enorme stanzone, dopo aver trovato una presa della corrente per la stampante, in una manciata di minuti, ripresentai il documento corretto per la firma del Notaio Florica, sul quale appose la sua firma che stonava con la pomposità del sigillo. “Bene” Liana era venuta con me “adesso dobbiamo andare a prenotare il timbro, dopo, rimane di depositare il capitale sociale in banca per poter eseguire l’ultimo passo per la registrazione finale al registro del commercio.” Se era possibile firmare lo statuto della società senza l’obbligatorietà della legalizzazione della firma dei soci, qualunque altro atto formale prevedeva la legalizzazione da parte di un Notaio di Stato. Da lì in poi il percorso della burocrazia rumena mi avrebbe accompagnato, mio malgrado, praticamente dovunque, ma, mentre per la maggior parte delle attività riuscivo, anche se con un po’ di sforzo, comprendere la logica di alcuni passi, per una cosa non sarei mai riuscito ad abituarmi, al timbro. Qualunque documento, fattura, ricevuta, richiesta assolutamente tutto che fosse stato effettuato per conto od in nome di una società, doveva essere accompagnato, sottoscritto e sancito, dall’apposizione del timbro della società. La vita del timbro iniziava con un percorso già travagliato ed assurdo. In pratica, per poter comprare il timbro, si doveva presentare la copia del certificato di immatricolazione del Registro del commercio. La parte ridicola era che non solo esisteva, come quasi tutto in Romania, una sorta di mercato parallelo dove con una mancia si poteva ottenere qualsiasi cosa, o quasi, ma che il negozio che fabbricava e vendeva i timbri si accontentava di una semplice fotocopia del certificato di immatricolazione della società, senza richiedere nessuna prova aggiuntiva sul fatto che, quel documento fotocopiato, riportante in calce il nome della società, fosse veramente la società del richiedente il timbro. Se avessi voluto acquistare un timbro di una qualsiasi società avrei potuto farlo, semplicemente, portando una copia che avrei potuto procurarmi molto facilmente. La parte tragicomica di quella regola era che non esisteva nessuna regola dello Stato che imponesse alle società di apporre, obbligatoriamente, il timbro, fatta eccezione di alcune regole di alcuni uffici, ma nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe mai accettato un qualsiasi documento se non fosse stato apposto il timbro. Avrei avuto molti grattacapi a causa del timbro ed avrei consumato, inutilmente, una buona parte del mio fegato cercando di spiegare ad uno qualsiasi dei funzionari di una qualsiasi branca dello Stato, che non esisteva nessun obbligo legale per cui avrei dovuto usare il timbro per ogni cosa.
La cassiera della banca sedeva dietro ad uno sportello la cui apertura ti imponeva una sorta di genuflessione. Aveva di fronte un monitor di un calcolatore sul quale si vedeva senza sforzo, il solitario di windows. Alla sinistra della tastiera teneva una tazza enorme con del liquido nero, presumibilmente caffè, che a quell’ora, avrebbe dovuto essere completamente freddo. Nella mano sinistra teneva una sorta di panino che addentava senza nessun ritegno pur essendo in servizio al pubblico. Liana, mentre si avvicinava allo sportello mi disse di rimanere calmo, probabilmente aveva intuito che mi sarei inalberato nel vedere quello scempio e, ancora di più, nel costatare l’indolenza della dipendente. Eravamo entrai nella Banca Commerciale Rumena di Cluj-Napoca, che, allora, rappresentava una delle più grandi banche rumene. Liana prese dalla sua borsa un piccolo cilindro e lo passò attraverso la misera apertura dello sportello adagiandolo accanto alla tastiera del computer. L’addetta, una donnona che avrà stazzato un paio di centinaia di chili, senza che la cosa l’imbarazzasse per nulla, aprì la sommità del cilindro che rilevò essere un rossetto, ne costatò, probabilmente, l’integrità e, solo dopo, spostò la tastiera del computer, posò il panino sul banco e si rivolse, non in maniera gentile, a Liana. Avevo assistito alla prima, incredibile, assurda, forma di corruzione. Liana aveva pagato un rossetto per poter carpire l’attenzione di una cassiera, maleducata, di una banca perché questa svolgesse il lavoro per cui era pagata. Non era il valore del rossetto, né il gesto in sé che mi aveva sconvolto, ma la naturalezza con la quale una aveva dato e l’altra aveva ricevuto. Non si conoscevano, Liana mi confermò che era la prima volta che la vedeva. Non aveva ancora nemmeno salutato, non aveva nemmeno lasciato intendere di quale servizio avevamo bisogno. Questo significava che quegli atteggiamenti, che solleticato dalla mia prima esperienza, inizia a notare praticamente ovunque, soprattutto negli uffici pubblici, di qualunque ordine e grado, erano parte integrante del vivere della gente, probabilmente abituata a svolgere quelle azioni da moltissimo tempo, tanto che erano diventate azioni usuali, praticamente normali.
“Cosa devo fare?” Mi pentii quasi subito per aver alzato la voce. Il salone della banca era quasi pieno e tuta la gente si era voltata a guardare noi due. “Dobbiamo trascrivere i numeri di serie delle banconote, dei dollari che stai versando per il capitale sociale della società, sulla distinta di versamento.” Avevo lavorato quasi dieci anni in banca. Di questi, quasi tre li avevo trascorsi tra la cassa e l’ufficio che, al Banco di Sicilia, si chiamava, esecutivo. Non avevo mai visto ne immaginato che qualcuno potesse obbligare un cliente a trascrivere il numero di serie delle banconote che stava versando, sulla distinta di versamento. Al più, ma solo se c’era il sospetto che qualcosa non fosse proprio in regola, appena il cliente se ne fosse andato, avremmo fotocopiato le banconote.
Ovviamente non ci fu nulla da fare, dovetti trascrivere i numeri di serie, per fortuna avevo solo banconote da cento dollari.

Continua…

Leave a comment

RSS feed for comments on this post. TrackBack URL