Spazio Italia - Radio Timisoara

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12/09/2016

Retezat 20

20160815_113052Partii il martedì della settimana successiva a quella in cui avevo fatto ritorno. Avevo riempito la macchina di tutto quello che ritenevo importante avere. Non avendo ancora un appartamento dove sistemarmi, non feci provviste di cibo, ma caricai, comunque la macchina, con tanta acqua minerale. Quella che avevo bevuto a Zalau era gasatissima. Inoltre mi ero procurato qualche leccornia da portare a Walter tanto per ricambiarlo della sua gentilezza. Era stato, e speravo, continuasse ad essere importante per la mia permanenza in Romania. Aveva tantissime informazioni ed, all’occorrenza, conosceva moltissime persone che sarebbero potute tornare utili a molti di quelle attività che, in fase di programmazione, sicuramente, avevo dimenticato di prendere in considerazione.
Mille chilometri sono sempre mille chilometri, soprattutto se si parte alle due del mattino. Non avevo previsto che mi dirigevo nella stessa direzione del sorgere del sole e, dopo circa cinque ore di viaggio, mi trovai una palla di fuoco dritta negli occhi. La giornata era splendida, il traffico a quell’ora stava iniziando ad aumentare, visto che mi trovavo nelle vicinanze di Budapest. IL parco macchine ungherese era decisamente migliore di quello rumeno, ma nonostante questo, c’erano moltissime Trabant, un rimasuglio della DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, a due tempi con la carrozzeria in cartone pressato. Una sorta di motoretta su quattro ruote con la capacità di espellere una quantità inaudita di gas di scarico che ne preavvisava la presenza con almeno un paio di chilometri in anticipo. Oltre tutto questo retaggio tecnologico del periodo comunista, non raggiungevano che gli ottanta, forse, novanta chilometri orari, e per la velocità con cui viaggiavo, potevano rappresentare un vero e proprio rischio.
MI ero fermato solo un paio di volte per alimentare la mia Golf e, grazie all’ora in cui ero partito, la mia velocità di crociera media era stata abbastanza sostenuta. Purtroppo non tutto il tragitto era su percorsi autostradali. Infatti, dopo essere uscito a Ilz, in Austra, fatta eccezione per un breve tratto di autostrada che andava da Vesprem sino a Budapest, il resto del tragitto era solo su strade statali. In Ungheria, con i limiti di velocità, spesso assurdi, viaggiare di giorno era quasi impensabile, ecco il perché della mia partenza ad un’ora pressoché impossibile. In ogni caso, l’ora non assicurava che non avrei incontrato pattuglie di polizia ma, l’esperienza mi insegnava che, di solito, si trovavano in prossimità dei centri abitati. Entrando a Budapest, forse per la stanchezza, non mi accorsi che avrei dovuto svoltare a sinistra e che, cosa più importante, mi ero incanalato per la svolta a destra. La strada che stavo percorrendo non era propriamente in centro e non era quasi completamente libera dal traffico. C’erano delle linee continue che volevano guidare il traffico, ma, non essendoci altre macchine, segnalai che dovevo procedere verso sinistra e iniziai a svoltare. Nel momento in cui avevo quasi ultimato la manovra, che non rappresentava alcun rischio, vidi nello specchietto retrovisore, un’auto della polizia con i lampeggianti accesi che mi stava segnalando di fermarmi. Non capivo qual’era stato il problema che aveva scatenato quella reazione, ma ligio alle regole, o così ritenevo, mi accostai e fermai la mia automobile. In quel momento due dei tre poliziotti che mi avevano seguito, scesero dall’auto e vennero verso di me facendomi cenno di scendere. Appena fui in piedi accanto la mia automobile, uno dei due mi chiese il passaporto ed appena lo ebbe in mano, quasi nemmeno consultandolo, lo ripose nel giacchino della sua giubba e mi fece cenno di seguirlo. Iniziavo ad essere preoccupato, oltre tutto perché nessuno dei due, sembrava parlasse altra lingua che l’ungherese. All’inizio avevo anche avuto un velato dubbio che si trattasse di poliziotti dato che, sulle fiancate della loro auto, non scriveva nessuna parola che assomigliasse vagamente a “polizia”, ma riportava la scritta “Rendorsec”. Mi fecero salire sulla loro auto e nonostante le mie proteste in inglese, avviarono l’automobile e si diressero verso un senso giratorio che si trovava un centinaio di metri più avanti. A quel punto ero veramente preoccupato. Non capivo cosa stesse accadendo, né, tanto meno, che cosa volessero e cosa avessi commesso di così grave da subire quella sorta di trattamento. Inoltre avevo lasciato la mia automobile aperta e, non credevo che fosse al sicuro. A quel punto, girando alla rotatoria e, tornando verso il punto dove i avevano prelevato, fermarono l’auto e, sempre a gesti, mi fecero capire che il mio reato constava nell’aver oltrepassato la linea continua. Continuavo a non capire ed iniziai a chiedere di ridarmi il passaporto e di farmi scendere, oppure di essere portato all’ambasciata italiana e che quello non era certo un trattamento civile. Loro facevano sempre finta di non capire e, finite le spiegazioni a gesti, si accesero delle sigarette e rimasero in silenzio. Era una situazione a dir poco grottesca e comica se, l’attore protagonista non fossi stato io. Ebbi quindi un lampo di genio e pronunciai la parola magica “dollars”. Nella mia mente volevo pagare un’eventuale multa, ma loro capirono che, alla fine, dopo tanto blaterare di ambasciate e diritti, avevo compreso che dovevo pagare una sorta di pedaggio. Avevo l’abitudine di portare delle banconote di piccolo tagli nella tasca dei pantaloni, per cui estrassi una banconota da venti dollari e la mostrai al poliziotto che mi stava accanto. Questi mi sfilò la banconota dalle mani e, con un sorriso a sessantaquattro denti, nell’aprire la portiera mi consegno il passaporto e mi augurò buon viaggio in un quasi perfetto italiano.
Avevo appena vissuto la mia prima rapina ad opera di tre tutori della legge. Oltre che costernato, non potendomi nascondere un certo grado di felicità per la ritrovata libertà, iniziai a chiedermi quante altre situazioni del genere avrei dovuto vivere durante i miei viaggi in solitaria percorrendo quelle strade straniere.
Il reso del viaggio di rientro in Romania, fu privo di ulteriori spiacevoli sorprese. Arrivai alla dogana di Petea, questa volta non in un momento di cambio turno, verso le otto del mattino. Non c’era molta gente a parte un paio di persone che conducevano a mano delle biciclette sul cui manubrio e sellino erano stati legati dei sacchi enormi che contenevano, presumibilmente patate. Mi ero premunito, all’ultima stazione di servizio in Italia, di sei bottiglie di un vino rosso che, onestamente, non avrei mai bevuto nemmeno nella peggiore delle ipotesi. Speravo di poter superare la dogana senza tante domande per il computer che avevo comprato per i ragazzi di Zalau barattando qualche bottiglia di quella specie di vino e così fu, solo che invece di accontentarsi di un paio di bottiglie, il doganiere di servizio, sempre con la divisa in disordine, la barba non rasata da qualche giorno e la sigaretta in bocca, si prese tutta la confezione di sei bottiglie.
Ero rimasto un po’ deluso dal fatto che, al gabbiotto dove si acquistavano i visti, non avevo trovato la triste signora della prima volta. C’era un uomo, sulla trentina, anch’egli per nulla loquace e decisamente sgarbato. Forse nei prossimi viaggi l’avrei incontrata nuovamente. Non avevo nessuna mira, ma era talmente carina che mi avrebbe fatto decisamente piacere rivederla ancora una volta.
Continua…

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