Retezat 17
La scuola di Bozna si trovava, di fatto, nel villaggio precedente, Treznea. Era una piccola casa con la bandiera tricolore rumena che sventolava su di un pennone improvvisato sulla facciata. Entrando non potei evitare di notare che i locali erano molto puliti, anche se decisamente poveri e privi delle minime dotazioni che ti aspetti di trovare in una scuola. Uno tra tutti il riscaldamento. Nell’aula, dove erano già presenti almeno trenta persone, la maggior parte delle quali in piedi sia ai lati che in fondo al locale, sollevata una ventina di centimetri dal resto del pavimento, la cattedra. I banchi erano in legno e, senza soluzione di continuità, interrotti solamente da uno stretto corridoi nel mezzo. La prima fila era occupata solamente da donne, la maggior parte sembravano anziane, ma non avrei giurato sul fatto che avessero più di cinquant’anni, anche se ne dimostravano almeno una ventina in più.
Alla porta mi accolse il signor Romitan, che per il tramite della, stranamente, attiva, Laura, mi salutò calorosamente come se volesse lasciare intendere alla folla, di essere in ottime relazioni con me. La cosa non mi disturbò, ma iniziai a percepire un non so che di velato disagio, con il quale avrei dovuto iniziare, molto presto, a condividere le mie giornate future.
Dopo una pomposa presentazione, che Laura non mi tradusse se non dicendomi “ti sta presentando”, mi cedette la parola. Non ero avvezzo ai discorsi in pubblico, anche se non avevo particolari emozioni, ma in quel preciso istante mi sentii caricato di una grossa responsabilità. La gente che mi stava guardando non aveva nessuna idea di cosa e chi fossi. Loro stavano sperando, presupponevo, che il mio intervento nel loro piccolissimo villaggio, avesse portato lavoro e, di conseguenza, migliori condizioni di vita per tutti o, per lo meno, per quelle famiglie, le cui persone, avrebbero lavorato per me. IN quel preciso istante realizzai che avrei dovuto aggiungere, alle mie preoccupazioni quotidiane, anche quelle di assicurare a quelle persone, delle condizioni di lavoro adeguate e dignitose oltre, ovviamente al salario mensile. Non avevo mai ragionato in quei termini.
La mia vita sino a quel momento non aveva richiesto quel tipo di impegno, in nessun momento. Dal mio fallito matrimonio non erano nati dei figli. Enrica, la mia ex moglie, l’avvocato che lasciai nel suo studio accarezzandosi l’addome, già pregno del seme di un altro, aveva già partorito una bambina, Ginevra, ma io avevo trascorso quei, quasi, tre anni, rifuggendo qualsiasi ipotesi di stabile relazione, ne avevo avuto abbastanza e non volevo ricadere nella possibilità di ripetere quell’esperienza per nessun motivo. Vivevo per me, per soddisfare le mie esigenze, che non erano né molte né complicate, ma se le avessi comparate con quelle della gente che mi stava guardando in quel momento in quell’aula, sarebbero state talmente lontane ed improponibili che avrei potuto spaventarmene.
“Traduci ogni singola parola ti prego.” Non ero convinto che lo avrebbe fatto, Laura dimostrava, ogni ora che trascorreva con me, un incredibile senso di distacco, sempre maggiore, tanto da riuscire ad irritarmi ed a portarmi a pensare, cosa che avevo praticamente deciso, di trovare un’altra persona al suo posto.
Non parlai molto. Ma guardai negli occhi ogni singola persona che si trovava nella sala. Dissi quello che volevamo intraprendere, lì a Bozna. Del perché desideravo prendere quel il capannone. Non mentii sull’entità dell’investimento, che, almeno per la parte iniziale, non sarebbe stato molto consistente, ma anche qui mi rei conto che il mio poco, rappresentava tantissimo per loro. “Sono una persona semplice, mosso dal desiderio di fare bene il mio lavoro. So che potremo raggiungere degli ottimi risultati se lavoreremo insieme. Desidero portare un po’ di benessere nelle vostre famiglie. Non conosco quasi per nulla il passato della vostra terra, spero che me lo racconterete in modo che possa capire meglio come adattare le necessità di una produzione alla vostra realtà.” Forse Laura stava traducendo tutto perché la gente stava ascoltando senza quasi fiatare. “Proveremo, insieme, a fare in modo che i vostri figli non debbano abbandonare il loro paese per cercare del lavoro”
Dopo qualche minuto, quando ebbi terminato quello che desideravo dire, un signore, vestito in maniera decisamente trasandata, in disaccordo con il resto delle persone che, nonostante indossassero indumenti di uso quotidiano, erano dignitosi e puliti, con voce forte e sicuro di avere il consenso degli altri disse “Noi vrem birtul nu fabrici”.
Laura esitò un istante a tradurre quella laconica frase che assomigliava più ad un editto statutario. Mentre ascoltavo la traduzione “noi vogliamo il birt e non la fabbrica” posai gli occhi sullo sguardo di una signora che sedeva nel primo banco, proprio difronte a me. Il suo vestito era nero a piccoli puà bianchi, mia nonna ne aveva uno uguale. Il suo sguardo era austero e, soprattutto, fiero. Si alzò, ma doveva essere talmentepiccola che, quasi, non si notò la differenza. Mi guardò per due lunghissimi secondi fisso negli occhi, quadi come se volesse suggellare una sorta di accordo definitivo con me e, voltandosi verso il signore che aveva appena parlato e che stava raccogliendo i primi consensi da alcuni uomini a lui vicini, gli disse “Ioan, taci, betivanule. N-ai lucrat un minut in viata ta, si mult mai putin ai citit carte. Birtul nu aduce bani, noi vrem lucru si acest om e un om serios”
Laura parve sorridere. Io, anche non capendo il senso della frase capii che era in mio favore ma avevo sottostimato il potere di quella piccola donna assecondato, anche, da qualche retaggio misogino. Ma mentre Laura mi traduceva parola per parola, questa volta, stavo vedendo anche lo sguardo di Ioan che cambiava espressione e che, dall’iniziale boria, era passato, in una frazione di secondo, al suo , credo naturale, sguardo sottomesso. “Ioan stai zitto. Tu non hai lavorato nemmeno un minuto nella tua vita e molto meno tempo hai passato sui libri. Il birt nu porta soldi alla comunità, noi vogliamo il lavoro e quest’uomo è una persona seria.”
Nessuno ebbe nulla da ridire. L’influenza di quella signora, con la quale avevo stretto un patto pochi secondi prima, quando mi aveva guardato intensamente per un paio di secondi, era stata decisiva. Quando, poco dopo, il sindaco chiese, per alzata di mano di votare se concedere il capannone di Bozna per gli usi che avevo dichiarato, oppure no, nessuno fu contrario. Non rividi mai più quella signora, ma, probabilmente, se non fosse esistita, a me non sarebbe capitato tutto quello che ho vissuto.
Era stata un’esperienza unica, esaltante sotto tutti gli aspetti. Mi ero presentato in quella Nazione solo da pochi giorni. Ero stato accolto molto male dai doganieri e dalle prime persone che, addirittura erano pagate per accogliermi, per cui il mio parere circa la gente del posto, era stato profondamente minato ed avevo rischiato di fare dietro front dopo qualche ora. L’evento con l’acqua aveva rischiato, di nuovo, di farmi tornare sui miei passi, ma quella riunione, unica nel suo genere, mi aveva dato una forza ed un entusiasmo pari a pochi e, soprattutto, lo sguardo di quelle signora mi aveva imposto un impegno che, per me, aveva molto più valore e forza, di qualunque altro contratto che mi accingevo a siglare. Ero pronto a partire con la mia avventura. Avevo raccolto quasi tutte le informazioni di cui avevo bisogno per completare il mio progetto finanziario e per condividere il progetto con Paolo in Italia. Era chiaro che senza di lui, anche se già avevo molti dubbi sulla sua persona, non avrei potuto concludere nulla. Non avevo un business e non avrei saputo da dove cominciare. Paolo già aveva un grosso cliente per cui lavorava da anni. Sapeva come costruire quei quadri elettrici ed aveva il materiale per iniziare. Aveva anche un sacco di problemi e, questo era il mio ragionamento di base, aveva capito che con me avrebbe potuto risolverli egregiamente. Certo sarebbe stato necessario “soffrire” un pochino, ma nel giro di poco tempo, qualche mese al massimo, tutti quanti avremmo iniziato a godere dei frutti di quell’iniziativa. Noi che avremmo risolto un problema non indifferente e che avremmo potuto continuare ad investire per aumentare il giro d’affari ed i clienti e la gente del posto che avrebbe ricevuto, mensilmente, un salario che fino a quel momento non esisteva e che, nella maggior parte dei casi, li costringeva a cercare lavoro lontano da casa, inficiando pesantemente il risultato del loro sforzo, dovendo coprire spese che, altrimenti, non avrebbero avuto.
Avevo iniziato a ragionare, anche sognando un futuro non molto lontano, dove avrei cercato di non dipendere da persone come Paolo. Ero sicuro che ce l’avrei fatta, ma stavo già iniziando a ommettere un errore e, non me ne rendevo conto.
Continua…