Retezat 15
Quello era proprio l’inizio di una nuova vita. Stavo percorrendo strade inesplorate e non era una vacanza. Dentro di me sapevo che stavo per tessere una trama che avrei utilizzato per tanto tempo e per molti scopi. Non avevo mai chiesto un appuntamneto ad un sindaco e, mai avrei immaginato di farlo. Non avevo mai provato ad inizare a capire che cosa mi sarebbe servito per avviare un’attività industriale e, adesso, lo stavo facendo. Quante altre novità avrei intrapreso da quall’inizio era un mistero che solo vivendo avrei trovato risposta, ma l’unica cosa che mi interessava al momento , era scoprire se avrei potuto utilizzare quel piccolo capannone a Boza, sul quale avevo già sognato e risognato innumerevoli scenari. Dentro il quale avevo già attrezzature, dipendenti ed il mio futuro. Certo era solo immagiazione, non sapevo nemmeno se sarei riuscito a convincere il sindaco a non destinare quel posto a diventare un “birt” e di permettere lo sviluppo di un’attività imprenditoriale con i benefici che avrebbe portato alla popolazione del suo villaggio, oltre che ai miei, anche se questo non è sempre scontato per un imprenditore.
“Buna ziua, va rog postiṭi” Laura non si scomodò nemmeno per un istante per tradure quelle frasi di benvenuto e, lo ammetto, questo mi fece decisamente innervosire.
Se la città, Zalau, ad ogni metro che percorrevo, mi svelava particolari sempre meno piacevoli e difficili da comprendere, i dintorni erano favolosi. La natura con i boschi le colline e gli stessi villaggi che si incontravano prima di arrivare a Bozna, tra i quali c’era Treznea, villaggio dove gli ungheresi del Generale ungherese Miklós Horthy nel 1940 trucidarono oltre 90 persone innocenti durante la loro avanzata, erano a dir poco favolosi. Non esistevano costruzioni tra un villaggio ed un altro e l’aria pulita, il sole in un cielo terso rendevano lo spettacolo decisamente notevole.
Il Sindaco abitava a Agrij, pochi chilometri dopo aver superato Bozna. Di Fatto, Bozna era talmente piccola che, amministrativamente, apparteneva al comune di Agrij e, di conseguenza, il sindaco era lo stesso.
L’appuntamento era stato fissato a casa sua. Una piccola casa con una ben curata corte antistante e, come tutte le case dei villaggi che avevo visto sino a quel momento, con un bell’appezzamento di terra, nella parte posteriore.
La casa aveva un porticato molto grazioso e dalla porta d’ingresso si accedeva ad un corridoio dove, sia dal lato sinistro che dal quello destro, insistevano due porte per lato. Noi fummo invitati ad entrare nella prima stanza a destra entrando. Era la stanza da pranzo. Un tavolo rettangolare nel centro e dieci sedie dalle quali si erano alzate altrettante persone, tutti maschi. Laura, non potendone fare a meno, iniziò le presentazioni delle quali non ricordai che il nome del sindaco, Signor Romitan. Degli altri solo le funzioni, ma in pratica erano una parte del consiglio comunale. Finiti i convenevoli si avvicinarono due signore, vestite con graziosi abiti folcloristici locali le quali recavano in mano un vassoio ciascuna. Uno aveva del pane e l’altro una ciotola col sale. Tradizione vuole che, ad un nuovo venuto si facciano gli onori di casa offrendogli, come tradizione precristiana vuole, pane e sale. Non ero mai stato accolto da nessuna parte in vita mia in quel modo e la cosa, se da un lato mi fece immenso piacere, dall’altro mi preoccupò. Il primo pensiero fu che forse lo zio di Diana aveva leggermente esagerato, richiedendo l’appuntamento, circa le mie intenzioni, ma, in seguito, mi resi conto che il loro gesto era puramente semplice ospitalità.
Non avevo avuto modo di conoscere le abitudini rumene e, meno che mai, quelle legate alle situazioni come quella in cui mi trovavo in quel momento. Il sindaco prese, dalla tavola un bicchierino, quasi microscopico. Una delle signore che avevano offerto il pane, si apprestò a versare del contenuto di una bottiglia, che si trovava in centro tavola, nel bicchierino in mano al sindaco e, una volta completata l’opera, completò il giro del tavolo, riempiendo tutti gli altri bicchierini che, nel frattempo, erano stati sollevati dalle mani degli altri ospiti. Il sindaco sollevò il bicchierino e, guardandomi negli occhi, disse “noroc”, avvicinò il suo al mio fino a quando non produssero il classico “cin” e ne bevette tutto d’un colpo il contenuto. Tutti, Laura compresa, si voltarono verso di me e rimasero in attesa che bevessi anch’io. Non mi feci certo pregare e calai, tutto d’un fiato, il contenuto del bicchierino. Appoggiare alle labbra il bordo e sentire quel liquido infuocato ardermi le mucose della bocca, prima e tutto lo stomaco, dopo aver ustionato tutte le vie digestive, dopo fu un tutt’uno. In vita mia non avevo mai bevuto qualcosa di così forte di così dannatamente alcolico. Cercai di non farlo vedere, ma le lacrime dei miei occhi tradirono tutte le mie più buone intenzioni, suscitando l’ilarità generale.
Non potei fare altro che ridere anch’io, ma iniziai a preoccuparmi subito dopo quando vidi che il sindaco, approfittando del fatto che il contenuto del mio bicchierino era stato bevuto, riversò dell’altro liquidi infernale, prima nel mio e, immediatamente dopo, nel suo di bicchierino.
La procedura si ripeté innumerevoli volte prima che riuscissi a sedermi ed agguantare una fetta di pane che, assieme a delle cipolle verdi, dei peperoni cotti e della sostanza bianca, che scoprii essere del lardo di maiale, era stato posto sulla tavola. Quel giorno ebbi molte primizie nel mio carnet. Il liquido infuocato che chiamano “tzuica” una sorta di grappa di prugne che supera abbondantemente i sessanta gradi alcolici, le cipolle verdi che non avevo mai voluto mangiare in vita mia ed il grasso di maiale che, nemmeno a dirlo, faceva parte della stessa categoria delle cipolle verdi.
Dopo pochi minuti ero quasi completamente ubriaco. Il Sindaco e gli altri astanti pareva che avessero bevuto acqua fresca. Ancora non avevamo parlato del mio progetto e, francamente, non credevo di essere più in grado di parlare e, soprattutto, discutere di qualcosa che avesse, nella realtà, un senso compiuto. Nel mio animo, per quel poco che riuscivo ancora a governare il mio pensiero, ero molto arrabbiato. Non ero andato lì per ubriacarmi né tanto meno, per perdere del tempo. Dovevo trovare un modo per recuperare ed arrivare ad avere la soluzione.
Mi avvicinai a Laura e, non con poca fatica, le dissi di chiedere al sindaco che cosa pensava di fare con il capannone di Bozna, quello che avevo visto il giorno prima. Dopo qualche minuto che il sindaco le rispose con fare molto sbrigativo Laura mi disse che lui non aveva il potere di decidere e che, se avessi voluto, avrei potuto chiederlo direttamente agli abitanti di Bozna. Lui si sarebbe fatto carico di riunirli nell’unica classe dell’unica scuola del paese per permettermi di esporre, direttamente, qual era il mio progetto. Se la gente avrebbe accettato, lui non avrebbe avuto nessun problema a discutere i dettagli economici e tecnici del contratto.
Rimani molto contrariato da quella risposta, nonostante i fumi dell’alcol ed allora capii la battuta che fece Email il giorno precedente, quando mi trovavo a tavola con loro, quando appellò il sindaco Romitan “apa sfinta”, ovvero uomo senza struttura. Feci dire a Laura che ero d’accordo e sperando che la sfilza dei bicchierini di tzuica terminassero, azzannai l’ennesima fetta di lardo accompagnata da un mazzetto di cipolle verdi.
Continua…