Retezat 14
L’appuntamento con il sindaco di Bozna era stato fissato per le 12 di quel giorno. Avevo prelevato Laura sotto casa sua, non senza fatica, visto che, la sera prima, quando l’avevo accompagnata che il sole era già tramontato. Difficile immaginare i quali sensazioni pervadevano la mia mente nell’addentrarmi nei quartieri di Zalau. Ero in centro, se così si poteva definire quella zona. I bloc, questa volta di solamente quattro piani, sembravano riposti alla rinfusa, senza un ordine apparente. Tutti avevano qualche scalino per arrivare al portone di ingresso. Al solito, come avevo già notato a Satu Mare, i gradini avevano una forma, un’alzata ed una pedata diversa uno dall’altra. I portoni tutti con quadri in ferro mal saldato, spessissimo con i vetri dei riquadri rotti, non invitavano per nulla all’ingresso, dove androni tetri e per lo più, sporchi lasciavano presagire un’indole particolare degli inquilini.
Uno degli italiani che avevo incontrato al confine, pochi giorni prima, mi aveva detto a mo’ di battuta che “dove finisce la fantasia incomincia la Romania”. Al momento avevo riso, più per la rima che per la conferma della veridicità del detto, ma più tempo passavo lì e più mi veniva da confermare quel detto.
Non esisteva il citofono, meno che meno i cellulari, per cui la precisazione di Laura la sera precedente “abito all’interno otto” rimase l’unica informazione valida per poter avvertirla che ero arrivato e che potevamo andare via.
Iniziai a salire le scale. C’era odore di muffa, cosa strana per una città senz’acqua, ma probabilmente, visto che era stata costruita in fretta e, dico io, senza nessuna pianificazione, quell’umidità derivava dalle canalizzazioni insufficienti. Il buio era quasi totale. Le scale non avevano nessuna finestra. Cercai l’interruttore della luce delle scale ma quello che trovai era rotto e dalla nicchia che in principio aveva alloggiato l’interruttore pendevano due fili con una specie di pulsante. Mi azzardai a premerlo e si accesero due sole lampade, ma ai piani superiori. Ad ogni piano le due porte degli appartamenti erano diverse. La ringhiera delle scale era costituita da barre di ferro saldate ed il corrimano era semplicemente di una lista di ferro saldata alla sommità delle barre verticali. Arrivato al piano dove c’era una lampadina accesa mi resi conto che, quest’ultima, non era avvitata ad un porta lampada, bensì aveva i due fili elettrici direttamente saldati sul bulbo. Era chiaro che, nel momento una lampadina si fulminava, nessuno l’avrebbe cambiata, dato che avrebbe dovuto dissaldare i fili, e risaldarli effettuando metà dell’operazione completamente al buio. Idea antifurto, pensai. Un altro tassello da aggiungere al retro pensiero da tenere sempre vivi per supportare il mio progetto imprenditoriale.
Al quarto piano bussai all’appartamento numero otto. Laura aprì la porta emi salutò con lo stesso fare svogliato con cui traduceva quello che le chiedevo. “Vuoi entrare per un caffè?” Non era tardi, l’appuntamento a Bozna era stato fissato per le dodici. Per raggiungere il posto mi occorreva al massimo mezz’ora. “Si grazie.” L’appartamento aveva lo stesso odore delle scale. L’ingresso era molto piccolo, ed in bella mostra immediatamente dopo la porta, diverse paia di scarpe facevano brutta mostra. L’ingresso aveva una porta sulla sinistra dove c’era una microscopica cucina, sulla destra un bagno e proseguendo avanti si entrava in una camera più grande adibita a zona pranzo. Da questa camera si entrava in un’altra camera che, probabilmente era la camera da letto. Questo era tutto l’appartamento. L’odore non fu l’unica cosa a lasciarmi perplesso, anche l’altezza del soffitto mi creò dei problemi di ambientamento. Non era più alto di due metri e settanta centimetri e regalava una spiacevole sensazione di oppressione. Tutti quei bloc erano stati costruiti dal regime comunista nel corso di almeno trent’anni. C’è da dire che, grazie a quegli appartamenti, che il più delle volte venivano assegnati a chi riceveva un lavoro in una fabbrica o, in alternativa, venduti con dei piani di acquisto assolutamente abbordabili, moltissimi problemi legati alla migrazione di forza lavoro, dal sud della Romania, verso il centro o l’ovest della Nazione erano stati risolti. In più anche le condizioni di vita di moltissima gente che nelle campagne non aveva, nelle loro case, la corrente elettrica, l’acqua corrente, i bagni ed il riscaldamento, furono decisamente migliorate, anche se l’estetica era stata l’ultima delle preoccupazioni. Inoltre, gli architetti del regime, avevano ben pensato di cambiare radicalmente le abitudini della gente ridimensionando drasticamente tutti gli spazi dove, notoriamente, l’aggregazione delle persone aveva luogo. Primo tra tutti la cucina, il focolare domestico. A seguire le stesse architetture, volutamente fredde, con colori grigi, tristi, case dormitorio in città fabbrica dove solamente gli edifici pubblici avevano il “diritto” di erigersi in architetture maestose ed imponenti, quale riflesso del potere del popolo socialista. Esempio primo tra tutti, la casa del popolo di Bucarest, seconda in grandezza solo al pentagono, ma prima in assoluta al mondo per bruttezza.
“Lui è mio marito, Calin” Strinsi la mano ad un ometto magro, con un paio di occhiali le cui lenti ricordavano il fondo di un paio di bicchieri, vestito con una tuta da ginnastica e con i pochi capelli arruffati. “È a casa in malattia.” Precisò Laura anticipando la mia domanda visto che oramai erano quasi le nove e mezza del mattino. “Lui lavora alla camera del lavoro di Zalau” Questa informazioni suscitò immediatamente il mio interesse e, dopo esserci presentati, mi riproposi di ripassare per poter assumere molte altre informazioni circa la legislazione in vigore in materia di diritto del lavoro in Romania. Purtroppo non parlava nessuna altra lingua se non il rumeno. Quel suono mi era assolutamente indecifrabile. Percepivo che dovevano esserci delle assonanze con l’italiano, ma, per qualche ragione, lo avevo assimilato ad una lingua straniera incomprensibile, almeno nel parlato e non riuscivo a comprendere se non qualche parola ma che, avulsa dal contesto, rimaneva senza senso. C’erano dei suoni talmente strani, gutturali, che non riuscivo minimamente a comprendere, tanto meno a riprodurre. “Come si dice grazie, Laura?” Sempre con fare svogliato “Mulţumesc”. La “ţ” si pronuncia “tz”. Ok, avevo molto da imparare ancora, ma lo sapevo e non ero sicuramente il tipo che si scoraggiava per delle vocali strane o delle consonanti con la coda.
Il caffè era buono, la moca era una Bialetti, l’omino col baffo ed il caffè era italiano, probabilmente regalo di qualche precedente datore di lavoro di Laura. “Bene, mulţumesc per il caffè, ma adesso dobbiamo andare, altrimenti arriveremo tardi.
Continua…