Non tutto è perduto.
Qualche volta ho la sensazione di essere stato in grado di costruire qualcosa. Altre volte ho la percezione che sia vero. Ho avuto occasione di rivisitare alcune delle mie trascorse e presenti attività nel tentativo, che spero sia andato a buona fine, di spiegare il perchè, il come e l’impatto della delocalizzazione italiana in Romania secondo Gianluca Testa. La domanda, in realtà richiedeva una risposta molto articolata e complessa, ma verteva sulla veridicità o sul dubbio che le lezioni riguardanti il delocalizzare raccolto dalle aule universitarie italiana, ed il vero vissuto e radicato nella nostra immagine lasciata in questo Paese, corrispondess a verità oppure no.
Gli intervistatori un gruppo di giovani laureati e laureandi dell’Università di Ferrara, che dopo aver discusso con l’amico e collega d’onda Carlo Marchegiano, sempre su sua gentile segnalazione, mi hanno contattato per un’intervista, appunto.
Lo scopo di queste righe non è un rievocare le ‘gesta’, lungi da me, bensì l’occasione per ribadire e sottoscrivere con forza quanto posto a conclusione delle piacevoli ore trascorse a raccontare e cercare di spiegare quello che, impropriamente, viene chiamato “modello di delocalizzazione”, che modello certamente non è, l’augurio misto a speranza che giovani come i miei graditi ospiti, possano essere il motore di un modo nuovo di fare impresa.
Una domanda tra le tante ha colto nel segno lo stato d’animo che pervade me ed alcuni altri connazionali quando veniamo accumunati “all’imprenditore” che esce dalla discoteca alle quattro del mattino con i pantaloni rossi ed un’avvenente ragazzina stretta tra le morse del suo portafogli. Una domanda che, più delle altre, mi ha riportato a vedere quello che avrei desiderato vivere dopo tanti sforzi, dopo tanto lavoro e tanto sacrificio. Una domanda che, tra le altre, mai come questa volta, mi ha chiesto qualche secondo in più prima di rispondere.
Confermo che ne è valsa la pena.
Si, la risposta è questa, n’è valsa la pena, sol perchè, altrimenti, non avrei avuto di cosa intrattenervi per un paio d’ore, sol perchè, andandovene, mi avete lasciato la chiara e certa impressione che avete percepito la passione con la quale sono stati vissuti questi anni in Romania.
Se riusciremo a reincontrarci, magari a Ferrara, sono sicuro che rivedrò lo stesso entusiasmo nei vostri sguardi. Andate avanti così ragazzi, c’è bisogno di gente come voi.
Gianluca Testa
Gentile Gianluca Testa,
sono uno dei ragazzi dell’Università di Ferrara di cui parla e in tutta sincerità, aprendo il vostro blog, non mi aspettavo di trovare un post sulla nostra piacevole conversazione.
Parlando a titolo personale le confesso che sono partito per la Romania con una grande curiosità rispetto a questo “mondo” di cui tanto si sente parlare in Italia. Il bello è venuto dopo, vivendo giorno dopo giorno, la realtà rumena! Durante questo viaggio ho scoperto infatti molte cose, ho incontrato persone interessanti e accanto allo stupore che ha segnato le mie giornate non è mancata anche qualche delusione. Ciò di cui sono più contento però è che sono tornato a casa molto più curioso di quando sono partito, come se tutto quel desiderio di conoscere la Romania, non solo non si fosse esaurito, ma fosse aumentato in modo esponenziale venendo a Timisoara.
Così è stato anche dopo la nostra conversazione, oltre al fatto che sarei rimasto a farle domande per tutta la giornata, una volta uscito dal suo ufficio mi sono tornate in mente le parole con le quali Peguy descrive il lavoro (che io ho attaccato in camera!):
“Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale,era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone,né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé,nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era lavoro in sé che doveva essere ben fatto. Un sentimento incredibilmente profondo che oggi definiamo l’onore dello sport, ma a quei tempi diffuso ovunque. Non soltanto l’idea di raggiungere il risultato migliore possibile,ma l’idea,nel meglio,nel bene,di ottenere di più. Si trattava di uno sport, di una emulazione disinteressata e continua, non solo a chi faceva meglio,ma a chi faceva di più; si trattava di un bello sport, praticato a tutte le ore, da cui la vita stessa era penetrata. Intessuta. Un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo più che da gran signore per chi avesse lavorato male. Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava. Tutti gli onori convergevano in quest’unico onore.”
Nel mio viaggio ho avuto la fortuna di incontrare alcune persone che lavorano così e sono sempre più convinto che anche una sola persona che affronta la giornata e il suo lavoro con questo spirito sia più costruttiva, rilevante e più degna di interesse di mille o conquemila truffatori ladri o speculatori.
Ciò che mi sono portato a casa dalla Romania è un rinnovato desiderio di studiare (è il mio lavoro) e poi lavorare con questa attenzione e questa cura figli della più bella tradizione italiana. Di questo mi sento responsabile.
Grazie.
Filippo Dalpozzo
Comment by Filippo Dalpozzo — 18/11/2009 @ 5:03 PMAmmetto che non conoscevo questa citazione di Peguy, e la ringrazio per avermela rivelata. Sono profondamente convinto che esistono milioni di persone che condividono e perpetrano il pensiero così bene descritto nel suo commento, ma sono altrettanto convinto che esistano altrettanti motivi per cui molte di queste persone non possano operare come vorrebbero. Questo, oltre che generare frustrazione, alimenta il mostro del qualunquismo e dell’indifferenza verso gli altri, denaturando i profondi significati che racchiudono parole come onore e rispetto. Il mio articolo, quello che ho voluto dedicarvi, ha avuto il compito di trasferire a voi, ma anche atutti gli altri che lo hanno letto o che lo leggeranno, l’esortazione a non smettere di credere che ne vale la pena e ne vale la pena sempre.
Comment by gianluca — 19/11/2009 @ 9:50 AMMantenga fede alla sua promessa, e coltivi le sue passioni, che per sua fortuna sono parte del suo lavoro, con lo spirito che vive nelle parole di Peguy.
Per questo la ringrazio.
Gianluca Testa